Quando in Italia si parla di stipendi, la conversazione parte quasi sempre dalla stessa frase: «All’estero prendono molto di più». A volte segue la citazione del cugino a Londra, del collega trasferito a Berlino o dell’amico che fa smart working da Valencia. Eppure, quando si entra nei numeri e nei meccanismi che regolano davvero la retribuzione, si scopre che la questione è molto più articolata — e spesso molto diversa da come viene percepita.
A ricordarcelo è l’ultimo report europeo “Understanding Employment Costs in Europe 2025”, che analizza 36 Paesi mettendo a confronto non solo i netti, ma soprattutto il costo reale del lavoro. Ed è proprio lì che si trova la chiave interpretativa che in Italia, ciclicamente, dimentichiamo.
Perché parlare di stipendi ignorando il costo del lavoro è un po’ come giudicare un’auto solo guardando il colore della carrozzeria: si vede la superficie, ma non il motore che la fa muovere.
Il primo errore: confrontare la busta del mese
L’Italia ha una caratteristica tutta sua: lo stipendio non viene distribuito in 12 mensilità, come accade quasi ovunque, ma in 13 o 14. Un dettaglio che sembra irrilevante, ma che incide moltissimo sulla percezione.
Con una RAL di 60.000 euro, un lavoratore italiano riceve poco meno di 2.800 euro al mese. Chi guarda solo quel numero tende a concludere che “si guadagna poco” e che “all’estero pagano di più”. Ed è vero che un lavoratore nel Regno Unito, con la stessa RAL, porta a casa circa 3.850 euro al mese. Ma li riceve su 12 mensilità. E ha un imponibile tassato diversamente, con contributi molto più bassi a carico dell’azienda.
Ne terminerebbe così se la storia fosse solo mensile.
Ma il punto è proprio che non lo è.
Il confronto tra il “mese italiano” e il “mese estero” è, per definizione, distorto. Serve guardare l’intero anno, non il singolo pezzo.
Il TFR non è un mostro, e non è una tassa
Un altro tema tipicamente italiano è il TFR. Ogni tanto torna come se fosse un costo fantasma, un denaro “che sparisce”. In realtà, il TFR è semplicemente salario differito: una parte dello stipendio accantonata e restituita più avanti.
All’estero non esiste nulla del genere. Quindi paragonare il TFR al “netto mensile” degli altri Paesi è sbagliato due volte:
- non è una tassa;
- aumenta il costo dell’azienda, non il netto del dipendente.
E il punto centrale sta proprio qui: in Italia il sistema è costruito per offrire protezioni più ampie, ma queste protezioni hanno un costo. Un costo che ricade sul datore di lavoro e, indirettamente, sui salari netti.
La vera differenza: il costo del lavoro
Il cuore della questione è semplice: in Italia assumere costa moltissimo.
Con una RAL di 60.000 euro, l’azienda sostiene un costo di oltre 88.000 euro. Nel Regno Unito, lo stesso lavoratore — stessa RAL — costa poco più di 66.000 euro. In Romania circa 61.000. In Francia addirittura 95.000.
E quindi sì, è vero che “all’estero si guadagna di più”.
Ma è altrettanto vero che “all’estero assumere costa molto meno”.
Quando i due fattori si sommano, è inevitabile che i netti cambino.
In Italia ogni euro che finisce in tasca al lavoratore ne è costato più di due all’impresa. È uno dei rapporti peggiori in Europa. Non perché qualcuno “voglia pagare poco”, ma perché la struttura del sistema rende carissimo ogni passaggio tra costo lordo e netto.
Ferie, festivi, congedi: un livello di tutele che altrove non esiste
Spesso l’analisi si ferma alla busta paga, ignorando qualcosa che nel resto del mondo non è affatto scontato: il numero di giorni pagati senza lavorare, e il numero di protezioni a carico del datore.
L’Italia garantisce 28 giorni di ferie, 11 festività retribuite e congedi che vanno dal matrimonio ai permessi 104, passando per uno dei sistemi di maternità/paternità più tutelanti d’Europa.
Il Regno Unito garantisce 20 giorni di ferie e 8 festività: undici giorni in meno dell’Italia. In molti Paesi il congedo parentale è minimo o inesistente. Negli Stati Uniti, per molte realtà private, la maternità è considerata malattia: due settimane e si torna in ufficio.
Ogni giorno pagato in cui non si lavora è un costo aggiuntivo, non un dettaglio.
E più tutele si offrono, più si alza il costo del lavoro complessivo.
Il costo della vita completa il quadro
L’ultima variabile, quella che quasi sempre sfugge, è il costo della vita.
Un dipendente londinese che porta a casa un netto più alto di un italiano, spesso spende il 50% in più per vivere. Affitti più alti, assicurazione sanitaria, trasporti, istruzione… La lista è lunga. In molte città europee il divario del potere d’acquisto reale non è affatto così netto come sembra guardando la busta paga.
In altre parole:
un netto più alto non significa necessariamente vivere meglio.
Serve guardare l’intero ecosistema
Il dibattito sugli stipendi in Italia deve uscire dalla logica della busta mensile e dell’aneddoto del cugino all’estero.
Per capire davvero perché “si guadagna poco”, bisogna osservare tutti i pezzi del puzzle:
- come si distribuisce lo stipendio nell’anno
- quante mensilità esistono
- quali contributi pagano aziende e lavoratori
- quanto costano ferie, festività e congedi
- cosa rappresenta il TFR
- quanto costa la vita nei vari Paesi
- qual è il rapporto tra costo lordo e netto
Solo allora si capisce che in Italia quasi nessuno “guadagna poco” nel senso stretto: è il sistema a rendere costoso assumere e inefficiente trattenere valore.
Il problema non è il singolo datore di lavoro né il singolo stipendio.
Il problema è l’architettura complessiva: complessa, rigida, costosa, spesso incoerente.
E finché continueremo a guardare solo la colonna della busta paga, continueremo a raccontarci una storia che non coincide con la realtà. Quella vera, fatta di numeri, costi, tutele e scelte strutturali che risalgono a decenni fa.