Ci sono notizie che arrivano con tempismo perfetto, quasi cinematografico.
Avevamo appena pubblicato un nuovo episodio di Remote Workers for Remote Villages, ragionando — ancora una volta — su quanto il fenomeno del rientro verso Sud fosse ormai più solido dei racconti nostalgici che lo circondano. E poi, il giorno dopo, la Sicilia annuncia una misura che sembra uscita dalle nostre conversazioni di ieri: 54 milioni di euro dedicati al South Working, o “Sicily Working”, come preferisce chiamarlo il presidente della Regione.
Non un bonus episodico, non un annuncio estivo destinato a dissolversi: una norma triennale, con risorse certe, che invita le aziende di fuori Sicilia a permettere ai propri dipendenti di lavorare dall’isola per almeno cinque anni. La logica è semplice: sostenere l’assunzione o la stabilizzazione di persone che hanno radici o residenza in Sicilia, ma un lavoro altrove. Una condizione sempre più diffusa tra giovani e professionisti qualificati, spesso costretti a lasciare l’isola non per scelta ma per necessità.
L’incentivo rovescia un paradigma durato decenni. Per molto tempo abbiamo pensato che lo sviluppo del Mezzogiorno dipendesse dall’arrivo di grandi imprese, come se l’unica strategia possibile fosse attirare “fabbriche” o uffici che decidessero di aprire una sede al Sud. Oggi si capisce che il vero movimento è un altro: portare il lavoro dove sono le persone, non costringere le persone a inseguire il lavoro. La geografia del valore si è liberata dai confini fisici, e chi governa i territori più periferici deve imparare a muoversi su questa mappa in trasformazione.
Il potenziale è enorme. Quando un lavoratore qualificato torna a vivere in Sicilia — a Palermo o Siracusa, in un borgo dell’entroterra o in una città costiera — porta con sé molto più del proprio stipendio. Porta relazioni, expertise, consumi, famiglie che si ricompongono, comunità che si riempiono, scuole che non chiudono. Porta presente e futuro, non solo memoria. È questo che rende il South Working qualcosa di diverso da un “ritorno alle origini”: è uno strumento di sviluppo territoriale, un cantiere di crescita.
Naturalmente, il successo di questa misura dipenderà dalla sua applicazione concreta. Gli incentivi funzionano solo quando sono chiari, accessibili e gestiti senza burocrazia inutile. Serviranno criteri semplici, tempi rapidi, un’amministrazione capace di accompagnare aziende e lavoratori invece di scoraggiarli. È il punto critico di tutte le politiche italiane che guardano al futuro: l’intuizione è spesso ottima, ma è nell’esecuzione che si decide se un’idea diventa trasformazione oppure resta solo un titolo di giornale.
Per ora, però, questa è una buona notizia.
Una notizia che conferma quanto raccontiamo da anni: il ritorno verso Sud esiste, è già cominciato, e adesso trova una cornice istituzionale che gli dà continuità. Non è più soltanto il percorso di pochi pionieri, ma un’alternativa praticabile per migliaia di persone.
E, soprattutto, è un segnale culturale forte: la Sicilia sceglie di credere nei suoi talenti, anche in quelli che sono partiti. Sceglie di dire che non bisogna rinunciare al proprio lavoro per tornare a vivere nella propria terra. Che il radicamento e la mobilità possono convivere. Che si può essere globali senza essere lontani.
Ieri ne parlavamo, oggi succede.
Da domani, si costruisce.