New Delhi è di nuovo avvolta da una coltre di smog così densa da rendere irriconoscibili i suoi viali. Per l’undicesimo giorno consecutivo, l’Air Quality Index ha superato quota 380 – livelli classificati come “severi” dal Central Pollution Control Board indiano. In questo contesto, il governo della capitale ha adottato una misura drastica: ordinare a uffici pubblici e aziende private di operare al 50% della presenza fisica, imponendo il lavoro da remoto a tutto il personale non essenziale.
La direttiva rientra nella fase III del Graded Response Action Plan (GRAP), il protocollo che scatta quando la qualità dell’aria diventa pericolosa per la salute. Il cuore del problema è noto: traffico veicolare intenso, combustioni diffuse, condizioni meteorologiche avverse e gli incendi agricoli stagionali delle regioni circostanti. E quest’anno, aggiunta alla lista, anche una sorprendente variabile esterna: la nube di cenere del vulcano etiopico Hayli Gubbi, la cui eruzione ha generato distrbuzioni nelle correnti atmosferiche. Un fenomeno che, secondo gli esperti, ha però un impatto marginale sulla qualità dell’aria a livello del suolo.
Il dato più significativo viene proprio dal traffico: secondo l’Indian Institute of Tropical Meteorology, nelle ultime ore la componente dell’inquinamento imputabile ai veicoli ha toccato il 21%, un picco tale da rendere inevitabile un intervento rapido sui flussi di spostamento. Da qui la scelta di ricorrere allo smart working non come opzione, ma come obbligo, sostenuto legalmente dall’Environment Protection Act del 1986.
La misura è semplice da enunciare, meno da applicare: uffici a turnazione, orari scaglionati, attività online per tutti i ruoli che lo consentono. Ospedali, trasporti e servizi pubblici essenziali restano esclusi. Per il resto della città, però, si tratta di un test importante: è possibile ridurre l’impatto dell’inquinamento urbano agendo direttamente sull’organizzazione del lavoro?
Per gli esperti, la risposta è sì – almeno in parte. Ridurre la mobilità pendolare nelle ore di punta può alleggerire la congestione e tagliare una fetta delle emissioni riespulsive, soprattutto in una metropoli in cui milioni di persone si muovono ogni giorno su strade già sature. È un approccio che altre città hanno valutato, ma che Delhi applica con una chiarezza senza precedenti: quando la qualità dell’aria diventa una minaccia immediata, il lavoro agile diventa una misura di sanità pubblica.
Naturalmente ci sono limiti. Il telelavoro non elimina la totalità delle emissioni, né risolve le altre fonti critiche di smog. Senza interventi paralleli su trasporti, gestione dei rifiuti, cantieri e combustioni agricole, la portata del provvedimento rischia di essere temporanea. C’è poi il tema dell’aderenza: perché il 50% produca effetti reali, la compliance deve essere elevata, sia nel settore pubblico sia tra le aziende private.
Eppure questo momento potrebbe aprire a una riflessione più ampia: se il lavoro da remoto funziona come misura d’emergenza, può diventare anche una strategia permanente per città ad alta densità? Delhi, suo malgrado, sta fornendo un laboratorio a cielo aperto. Nelle prossime settimane si vedrà se l’AQI scenderà e se l’esperimento verrà replicato in futuro, magari in forma più strutturata.
Per ora c’è un dato certo: lo smart working non è più soltanto una pratica organizzativa o una leva di HR. È diventato uno strumento ambientale, un modo concreto per proteggere milioni di persone in una delle metropoli più inquinate al mondo. E Delhi, oggi, è la prova vivente che il lavoro agile può avere un impatto che va molto oltre la scrivania.