A distanza di cinque anni dalla pandemia, il dibattito sul lavoro da remoto non è più un’urgenza contingente, ma una questione strutturale. Quello che nel 2020 è stato un passaggio forzato – talvolta improvvisato – oggi è diventato un nodo strategico: quale modello organizzativo garantisce produttività, sostenibilità e benessere?
Le domande dei candidati lo dimostrano: “È previsto lo smart working?”, “Quanti giorni di presenza?”, “Ci sono strumenti di supporto per chi lavora da casa?”.
Non sono curiosità marginali, ma criteri di scelta di un lavoro, che pesano tanto quanto la retribuzione.
In Italia, il dibattito si concentra soprattutto su aziende e pubblica amministrazione, ma c’è un attore spesso dimenticato: le organizzazioni non profit. Ed è qui che il lavoro ibrido presenta un doppio volto: opportunità e rischio. Perché se da un lato il modello può portare efficienza, attrattività e riduzione dei costi, dall’altro può indebolire proprio il cuore pulsante del terzo settore: la relazione diretta, quel capitale umano che crea impatto sia in chi offre sia in chi riceve servizi e supporto.
Il contesto italiano: un’eredità ancora da metabolizzare
Durante l’emergenza sanitaria, le aziende private che avevano già avviato processi di digitalizzazione sono passate online con relativa rapidità. La pubblica amministrazione ha dovuto affrontare un salto tecnologico e culturale imponente, con esiti molto differenziati.
Il terzo settore, invece, si è trovato davanti a sfide ancora più particolari: servizi spesso radicati nel contatto fisico, risorse limitate per dotare tutti di strumenti digitali adeguati, procedure nate per la prossimità e non per la distanza.
Eppure, anche associazioni, fondazioni e cooperative sociali hanno sperimentato modalità ibride e digitali, scoprendo che alcune attività amministrative, formative o di coordinamento potevano essere svolte a distanza con efficacia, liberando tempo e budget per la missione sul campo.
I benefici del lavoro ibrido
- Riduzione dei costi operativi
Affitti, utenze e logistica pesano sui bilanci. Liberare anche solo una parte di queste risorse può significare più fondi per progetti e servizi, un aspetto vitale soprattutto per il non profit. - Attrattività verso i talenti
Nel terzo settore, attrarre figure qualificate non è semplice: i salari sono spesso meno competitivi. Offrire flessibilità e un equilibrio vita-lavoro migliore può diventare un vantaggio strategico. - Benessere e prevenzione del burnout
La possibilità di alternare casa e sede di lavoro riduce pendolarismo e stress, aumentando la produttività nel medio periodo. Nel terzo settore, dove l’impatto emotivo del lavoro è elevato, questo può fare la differenza nella tenuta del personale. - Accelerazione della digitalizzazione
La spinta a utilizzare piattaforme collaborative, project management tool e sistemi di videoconferenza ha migliorato competenze e processi interni. Una base che, se mantenuta, aumenta resilienza e capacità di risposta a emergenze.
I rischi (e non sono solo tecnologici)
- La natura del lavoro di prossimità
Molti servizi sociali, educativi, culturali o sanitari richiedono contatto diretto. La fiducia e l’empatia nascono dall’incontro, non solo dalla competenza. Un’eccessiva distanza rischia di ridurre l’efficacia dell’intervento. - Perdita di coesione interna
Nel non profit, la motivazione e l’allineamento valoriale sono carburante. La cultura organizzativa si alimenta di momenti informali, di mentoring naturale, di relazioni quotidiane. Se questi spazi vengono meno, il rischio di sfilacciamento è concreto. - Disuguaglianze di accesso
Non tutti dispongono di connessioni veloci, ambienti adatti o competenze digitali. Nel terzo settore, spesso, le risorse per colmare questo gap sono limitate. - Difficoltà di misurazione dell’impatto
Nel lavoro da remoto, monitorare attività e risultati può essere più complesso, soprattutto quando la missione è legata a indicatori qualitativi e relazionali.
L’equilibrio difficile: il modello ibrido
La risposta più sostenibile, per aziende, PA e non profit, sembra essere l’ibrido. Ma non un ibrido “di facciata” – due giorni sì e tre no – bensì un modello ragionato:
- Attività amministrative e di coordinamento → prevalentemente da remoto.
- Progettazione e formazione interna → in modalità mista, con momenti in presenza per stimolare creatività e collaborazione.
- Interventi sul campo e servizi alla persona → in presenza, integrando strumenti digitali per reporting, comunicazione e follow-up.
Per funzionare, serve:
- Chiarezza sugli obiettivi – definire per ogni ruolo ciò che conta misurare: risultati, non ore.
- Politiche trasparenti – regole chiare su quando e come si lavora da remoto.
- Investimenti mirati – device, connessione, formazione digitale e strumenti collaborativi.
- Cultura della fiducia – spostare il focus dal controllo alla responsabilità condivisa.
- Incontri di qualità – il tempo in presenza va dedicato a costruire relazioni e a ciò che il digitale non può replicare.
Perché il non profit non può ignorarlo
Il terzo settore italiano, che già affronta sfide legate a sostenibilità economica e ricambio generazionale, può trarre grande beneficio da un lavoro ibrido ben disegnato. Non per “mettersi alla moda”, ma per:
- migliorare la gestione delle risorse,
- attrarre competenze difficili da reperire,
- garantire continuità anche in caso di emergenze.
Il vero rischio non è “perdere” il contatto fisico, ma non avere un disegno strategico: oscillare tra presenza totale e remoto totale senza criteri può indebolire l’organizzazione, ridurre l’impatto e disorientare chi lavora e chi beneficia dei servizi.
Guardare avanti
Il futuro del lavoro in Italia non sarà mai completamente remoto, né interamente in presenza. Sarà ibrido, intelligente e intenzionale.
Nel terzo settore, questo significa costruire modelli che proteggano e alimentino il capitale relazionale – la vera ricchezza – usando la tecnologia come amplificatore, non come sostituto.
Le organizzazioni che sapranno trovare questo equilibrio non solo saranno più efficienti, ma rafforzeranno la propria missione e il proprio impatto sociale, trasformando il lavoro ibrido da necessità contingente a leva strategica.