La nuova torre di JPMorgan e la vendetta del workaholic
Prima Londra, poi New York. Il messaggio è ormai chiaro: l’era dello smart working universale è stata una parentesi, non un nuovo paradigma. La prova lampante? Il nuovo quartier generale di JPMorgan a Manhattan: un grattacielo da 60 piani, 3 miliardi di dollari di investimento, ristoranti di lusso, palestra, wellness center, bar, pub interno e persino un mini-market aperto h24.
Non è solo architettura, è semantica culturale. In altre parole: il lavoro è tornato a essere la tua vita. Non basta più essere presenti 9-to-5: l’ufficio ti vuole 24/7, e per rendere il tutto più accettabile ti coccola con sushi bar e yoga room.
Non è un semplice “Return to Office”
Jamie Dimon, CEO di JPMorgan, non ha mai avuto dubbi: “Il lavoro da remoto distrugge la cultura aziendale”. Ma qui non si tratta di preferenze manageriali. Il nuovo HQ è la materializzazione di un pensiero: non un “ritorno in ufficio” per tre giorni alla settimana, ma un “ritorno al lavoro” come stile di vita totalizzante.
E non è solo un fatto di banche d’affari newyorkesi. A Londra, le torri di Canary Wharf hanno visto negli ultimi mesi una pressione crescente per rientri a tempo pieno. A Milano, studi legali e società di consulenza hanno ridotto al minimo le opzioni ibride. A Francoforte e Parigi, le multinazionali dell’automotive e del pharma ridisegnano gli HQ con la stessa logica: più controllo, più faccia-a-faccia, meno libertà.
Il virus del “work as life” si sta diffondendo.
La trappola delle amenities
Il linguaggio ufficiale è accattivante: benessere, inclusione, collaborazione. Ma fermiamoci un attimo: cosa significa davvero avere un market aperto 24 ore in un ufficio? Significa che qualcuno si aspetta seriamente che tu possa aver bisogno di uno snack alle 3 del mattino.
È la normalizzazione del superlavoro, travestita da attenzione al dipendente. Ti togliamo la possibilità di organizzarti la vita, ma in cambio ti offriamo comodità che ti faranno sembrare più accettabile la condanna. Un po’ come dare un divano di design in cella di isolamento.
La domanda è: stiamo parlando di “caring” o di una nuova forma di prigionia dorata?
Giovani lupi e nuove reclute
Qui entra in gioco la contraddizione più grande. Da un lato, i sondaggi dicono che le nuove generazioni vogliono flessibilità, autonomia, work-life balance. Dall’altro, c’è sempre un manipolo di giovani lupi pronti a sacrificare tutto per entrare nel club dei super stipendi e delle carriere lampo.
E così, per ogni talento che rifiuta un contratto con orari impossibili, ce n’è un altro disposto a firmare il patto faustiano: 80 ore a settimana in cambio di bonus, stock options e status. “That’s part of the gig”, come dicono a Wall Street.
Le aziende lo sanno bene, e costruiscono il loro modello su questa selezione naturale: chi non regge, esce. Chi resiste, viene premiato.
Non solo finanza
Il pericolo vero, però, non è che le banche continuino a essere banche: quello è il loro DNA. Il rischio è l’effetto contagio.
Perché se la finanza può permettersi di imporre queste regole offrendo stipendi fuori scala, cosa succede quando lo stesso modello viene copiato da altri settori che non possono offrire gli stessi incentivi? La risposta la conosciamo: burnout, fuga di talenti, dimissioni silenziose.
Eppure, tante aziende inseguono ancora l’illusione che la cultura workaholic sia sinonimo di produttività, senza capire che un modello copiato male diventa tossico due volte: perché toglie libertà senza restituire alcun vantaggio proporzionato.
Due visioni opposte, un mercato polarizzato
Ecco quindi il punto. Non si tratta di decidere se “remoto è meglio” o se “ufficio è più efficace”. La verità è che non esiste un modello universale che funzioni per tutti.
Quello che emerge, piuttosto, è una polarizzazione sempre più netta del mercato del lavoro:
- Da una parte, aziende che offrono libertà, flessibilità, possibilità di lavorare da qualsiasi parte del mondo. Spesso con stipendi più contenuti, ma con una promessa: la vita rimane tua.
- Dall’altra, colossi che offrono pacchetti economici aggressivi, percorsi di carriera rapidi, benefit da capogiro – al prezzo, però, della tua autonomia.
E in mezzo? Sempre meno spazio.
La vera domanda
La morale è questa: non si tratta di stabilire quale modello sia “giusto” e quale “sbagliato”. Si tratta di capire quanto siamo disposti a pagare, non in termini di denaro ma di libertà, per quello che chiamiamo “successo”.
Perché se il lupo di Wall Street è tornato, pronto a divorare tempo ed energie, non tutti avranno voglia – o necessità – di seguirlo nella tana. Alcuni preferiranno restare liberi, anche a costo di guadagnare meno. Altri, invece, firmeranno con entusiasmo, convinti che il prezzo della libertà sia un affare se barattato con bonus a sei cifre.
La verità è che il futuro del lavoro non sarà uniforme. Sarà polarizzato, radicale, diviso.
Ed è bene rendersene conto ora, prima che un sushi bar aziendale ci faccia dimenticare che non siamo nati per vivere in ufficio.