“Se sbagli, è finita.”
Quante volte abbiamo sentito, pensato, interiorizzato questa frase? Nelle scuole, nelle aziende, nei discorsi da bar o nei colloqui di lavoro. È un mantra silenzioso ma pervasivo, radicato profondamente nel tessuto sociale italiano. Oggi, a riportarlo alla luce — con dati, testimonianze e analisi — sono due articoli pubblicati da Il Sole 24 Ore (21 maggio 2025): “Giovani impreparati al fallimento” e “Il peso dei social non lascia più liberi di fallire”. Due contributi editoriali, certo, anche in parte promozionali, ma con spunti che vale la pena rilanciare e analizzare in profondità, specie se il nostro lavoro — come comunicatori, HR, formatori o imprenditori — ha a che fare con la crescita delle persone.
Una generazione smarrita o una cultura bloccata?
Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Talents in Motion (fondata da Patrizia Fontana), l’80% dei giovani italiani si sente impreparato ad affrontare il fallimento professionale e il 75% ha paura di sbagliare le proprie scelte lavorative. Numeri che suonano come un allarme rosso. Ma lo sono davvero solo per le nuove generazioni? O piuttosto raccontano di un ecosistema professionale e culturale più ampio, che ha difficoltà a gestire l’errore, a valorizzare i tentativi e — soprattutto — a legittimare il cambiamento?
Nel nostro Paese il fallimento è una macchia. Che tu sia uno startupper che ha chiuso una srl innovativa o un giovane laureato che si ritrova a cambiare tre lavori in un anno, il marchio dell’incostanza, dell’errore, dell’instabilità ti segue come un’ombra. Il messaggio sottotraccia è chiaro: se non hai successo subito, qualcosa in te non va.
Eppure, lo sappiamo: ogni impresa — personale o imprenditoriale — è fatta di prove, tentativi, aggiustamenti. L’innovazione nasce per errore molto più spesso di quanto nasca da previsioni infallibili. Ma questa narrazione da “trial & error” non ha ancora cittadinanza piena in Italia. La colpa? Non è dei giovani. È del contesto.
Il fallimento come tabù culturale e blocco sistemico
In Italia il fallimento non è (solo) una possibilità tra tante, è una sentenza culturale. E questo vale su più livelli:
- Giudizio scolastico: l’equazione voto = valore personale è ancora dominante. Come nota Elena Panzera (presidente Aidp Lombardia), “la maggior parte delle scuole sono basate su una concezione nozionistica dove il voto descrive il ragazzo”. E se il voto è basso? Fallimento.
- Nucleo familiare: la protezione (giustificata) si trasforma spesso in iper-controllo emotivo, dove il giovane è spinto a evitare ogni rischio pur di non “deludere”.
- Esposizione pubblica: i social network, amplificatori del confronto perenne, impediscono l’errore silenzioso. Sbagliare oggi è una performance pubblica.
Il risultato è devastante: il 78% dei giovani dichiara di non sapersi orientare in un contesto di incertezza lavorativa e quasi il 90% teme il giudizio o la delusione, propria o altrui. Ma non possiamo cavarcela dando la colpa alla “generazione fragile”: questa è una fragilità costruita, alimentata, sistemica.
Fallire è un'esperienza imprenditoriale (ma non in Italia)
Il paradosso è che, mentre celebriamo la “mentalità imprenditoriale”, nessuno ci dice che l’imprenditore fallisce (spesso), impara (se può) e ricomincia (se glielo permettono).
Nel nostro Paese fare impresa è ancora visto come un rischio fuori scala, quasi temerario. La cultura del posto fisso — nonostante i proclami — resiste, insieme a una burocrazia che penalizza chi chiude, insieme a un sistema bancario che guarda con sospetto a chi ha avuto un “inciampo”. E questa mentalità non riguarda solo le aziende: riguarda chiunque voglia mettersi in gioco.
Oggi, in Italia, provare e sbagliare è più pericoloso che non provare affatto. È un controsenso competitivo, economico, ma soprattutto culturale.
Il bisogno di una nuova educazione al rischio (emotivo, professionale, umano)
La vera sfida è rieducare al rischio e all’imperfezione, prima ancora che al successo. Come?
- Nelle scuole: cambiando il paradigma valutativo. Il voto serve, ma non basta. Serve educazione emotiva, lavoro di gruppo, riflessione sul sé. Il “fallimento didattico” deve diventare un’esperienza costruttiva, non una ferita da nascondere.
- Nelle aziende: favorendo la cultura dell’apprendimento continuo. L’errore deve essere incluso nei KPI, nei bilanci formativi, nella narrazione interna. Non esiste innovazione senza fallimento. E non esiste crescita se non c’è autorizzazione a sbagliare.
- Nella formazione HR: la formazione tecnica è importante, ma senza lavorare sulla resilienza e l’intelligenza emotiva resta sterile. Le aziende che oggi crescono sono quelle che investono sulle persone prima ancora che sulle skill.
- Nella narrazione pubblica: servono role model che raccontino fallimenti, non solo successi. Che dicano: “Ho chiuso due startup, ho cambiato lavoro cinque volte, ho sbagliato, e sono ancora qui. Più forte.”
Un paese che non sbaglia è un paese che non crea
L’Italia è ricca di talento, creatività, energia imprenditoriale. Ma è anche affetta da un bias culturale profondo, che penalizza chi si espone, chi prova, chi cade. Il problema non sono i giovani: il problema è l’assenza di un sistema che legittimi l’errore.
Cambiare questa cultura richiede tempo, investimenti e coraggio. Ma è l’unico modo per rendere l’Italia un ecosistema fertile per l’innovazione — non solo tecnologica, ma anche umana.
E allora, la prossima volta che un ragazzo sbaglia, o che un’impresa chiude, o che un professionista cambia direzione, non chiediamoci perché ha fallito. Chiediamoci perché non gli abbiamo insegnato come si riparte.