Microsoft sta testando una nuova funzione di Teams che, dal 2026, permetterà alla piattaforma di indicare automaticamente se un dipendente si trova fisicamente in ufficio. Non parliamo di GPS o tracciamenti invasivi: il sistema si basa sulla rete Wi-Fi aziendale. Se il dispositivo si connette a una rete riconosciuta come “sede”, lo stato dell’utente viene aggiornato di conseguenza. Una funzione apparentemente innocua, pensata per semplificare il lavoro ibrido e capire chi è effettivamente disponibile per riunioni e attività in presenza.
Il punto, però, non è la tecnologia. È il significato che le organizzazioni potrebbero attribuirle.
Negli ultimi anni la discussione sull’hybrid work è stata spesso polarizzata: da un lato le aziende che cercano di riportare le persone in ufficio, dall’altro i lavoratori che rivendicano autonomia e fiducia. Una funzione che distingue automaticamente “in ufficio” da “da remoto” rischia di spostare questa tensione su un piano nuovo: quello del controllo digitale. Con un paradosso evidente. Lo smart working europeo — quello vero, non la versione emergenziale del 2020 — si basa sul principio della valutazione per obiettivi, non sulla presenza fisica. Reintrodurre un indicatore di presenza rischia di sembrare un ritorno al passato, travestito da efficienza tecnologica.
Sul piano HR l’impatto può essere significativo. In molte aziende, ciò che è “opzionale” diventa rapidamente “prassi”. Il consenso degli utenti, richiesto da Microsoft, è teoricamente una garanzia. Ma nella vita reale dire “no” a una feature abilitata dal proprio datore può creare dinamiche sottili di pressione o conformismo. Se la cultura aziendale interpreta la presenza fisica come segnale di impegno, allora un sistema automatico può diventare un termometro invisibile di fedeltà.
C’è poi il tema legale. Dal punto di vista GDPR, il tracciamento della presenza attraverso reti aziendali è possibile, ma richiede una valutazione di impatto e soprattutto una chiara indicazione delle finalità. Non basta dire “serve per organizzare le riunioni”. L’azienda deve dimostrare che non userà questi dati per finalità disciplinari o valutative, limitare la conservazione, e soprattutto garantire trasparenza. Nella pratica significa policy interne aggiornate, comunicazioni chiare ai dipendenti e un bilanciamento serio tra interesse aziendale e diritti individuali.
C’è infine la dimensione culturale, forse la più importante. Dopo anni di lavoro distribuito, la distanza tra chi misura la produttività per output e chi la misura per visibilità non si è mai davvero ridotta. Una funzione come questa rischia di alimentare l’idea — sbagliata — che per lavorare bene serva “vedersi”. E crea un precedente: se oggi si traccia l’accesso alla rete, domani cosa diventa accettabile? Non è allarmismo, è semplicemente un invito alla prudenza: la tecnologia non è mai neutrale, dipende da come la si usa.
Teams potrà sicuramente facilitare la logistica dell’hybrid work. Ma perché non si trasformi in uno strumento di sorveglianza involontaria, le aziende dovranno essere trasparenti, proporzionate e coerenti con i principi dello smart working europeo. La vera domanda, in fondo, è semplice: abbiamo bisogno di più dati… o di più fiducia?