Emma Grede, l’imprenditrice che ha contribuito al successo dei brand delle Kardashian, ha recentemente fatto discutere per le sue dichiarazioni sul concetto di “work-life balance”. Intervenendo al podcast The Diary of a CEO, ha definito l’equilibrio tra vita e lavoro come una “responsabilità personale” e, addirittura, un “campanello d’allarme” se viene sollevato durante un colloquio.
“Work-life balance è un tuo problema. Non è responsabilità del tuo datore di lavoro”, ha detto Grede. “Quando qualcuno mi parla di questo tema durante un’intervista, penso: ‘C’è qualcosa che non va’”.
Secondo la fondatrice di Good American, chi ambisce a una carriera di successo deve essere disposto a lavorare anche nei weekend, conciliare doveri familiari con impegni professionali, e mettere il “gioco duro” davanti al comfort. Lei stessa, madre di quattro figli, racconta di passare i weekend a Malibu, ma anche di lavorare regolarmente il sabato.
Eppure, ha anche sottolineato che non si aspetta che i suoi dipendenti siano incatenati alla scrivania: esiste flessibilità per un appuntamento dal parrucchiere o una riunione scolastica. Quello che contesta è l’atteggiamento di chi pone la qualità della vita davanti alla qualità del lavoro, almeno nel contesto dell’ambizione professionale estrema.
Un pensiero controcorrente, ma forse non del tutto sbagliato
Personalmente, comprendo bene quanto sia difficile per imprenditori e professionisti mantenere un equilibrio tra lavoro e vita privata, e spesso è il lavoro ad avere la meglio. Ma quando si parla di lavoro dipendente, con un contratto chiaro e dinamiche, attese e un monte ore possibilmente ben definito, il discorso cambia.
Se accetti un contratto impegnativo, sai a cosa vai incontro. Alcune professioni – come quelle nella finanza della City o nei grandi studi legali – sono esigenti per natura, e spesso retribuite di conseguenza. Certo, questo porta a distorsioni (e burnout), ma in molti casi è una scelta consapevole. L’equilibrio si cerca dentro il sistema, non contro di esso.
Forse Emma Grede non ha tutti i torti. O forse semplicemente può permettersi di dire certe cose perché è donna ancora giovane, con soci importanti, di bella presenza in un mercato molto sensibile a questo fattore e... ha successo, e da lei, in America, si tollera anche una certa “cattiveria” imprenditoriale. Una “boss imbruttita” 2.0 che sa come vendere, anche le proprie opinioni.
Il rovescio della medaglia: il rischio del burnout e della colpevolizzazione
Ma attenzione: secondo la psicologa del lavoro Katina Sawyer, intervistata da Business Insider, questa visione sposta il peso del burnout interamente sulle spalle del lavoratore, deresponsabilizzando le aziende.
“Considerare il work-life balance come una skill personale rafforza un pensiero distorto. Permette ai datori di ignorare il ruolo delle loro aspettative nel causare stress e di scaricare la colpa sul singolo”, afferma Sawyer.
Il rischio, insomma, è di trasformare l’ambizione in una corsa al massacro, dove solo chi rinuncia alla vita personale può arrivare in cima. E non tutti vogliono – o possono – vivere così.
Anche leader come Satya Nadella, CEO di Microsoft, propongono un modello più sostenibile: non equilibrio, ma “armonia” tra lavoro e passioni. Un approccio più umano, forse più realistico, per una forza lavoro che sta cambiando.
Una discussione aperta
Emma Grede ha toccato un nervo scoperto. Il dibattito tra responsabilità individuale e dovere aziendale nel garantire un equilibrio sano è più attuale che mai. In un mondo del lavoro sempre più fluido, ibrido, e competitivo, la domanda resta: fino a che punto dobbiamo sacrificare la vita per il lavoro?
Forse, più che una risposta univoca, serve una nuova cultura della responsabilità condivisa. Dove chi ambisce all’eccellenza sa che dovrà faticare. Ma dove anche il sistema riconosce che il valore del lavoro non si misura solo in ore, ma in qualità di vita.