Negli ultimi anni, soprattutto nel Regno Unito, il fenomeno del job hopping – ovvero il cambiare lavoro frequentemente – ha assunto proporzioni sempre più rilevanti, al punto da diventare una vera e propria norma per una generazione di lavoratori, in particolare i giovani della Gen Z. Secondo un’analisi di LiveCareer su oltre 369.000 CV, l’esperienza media in un posto di lavoro si attesta ormai sui 2,6 anni, con punte molto più brevi tra i lavoratori nella fascia 16-24 anni. Ma oggi, con un mercato del lavoro in rallentamento e una crescente incertezza economica, anche per questi giovani si profila la necessità di una riflessione più profonda sul senso e sul valore del proprio percorso professionale.
E in Italia? Sebbene il nostro mercato del lavoro abbia caratteristiche diverse – un sistema meno flessibile, una maggiore incidenza del lavoro a tempo indeterminato e una cultura del “posto fisso” ancora piuttosto radicata – è impossibile ignorare che anche da noi si stanno affermando dinamiche simili. L’instabilità economica, l’incertezza sulle prospettive di carriera e il desiderio di maggiore soddisfazione personale stanno spingendo sempre più giovani italiani a cambiare impiego spesso, nella speranza di trovare condizioni migliori, salari più alti o contesti più stimolanti.
Questa tendenza può avere dei vantaggi. Cambiare lavoro consente di accumulare esperienze diverse, mettersi alla prova in nuovi contesti, sviluppare competenze trasversali e ampliare la propria rete di contatti. Per molti giovani, soprattutto in settori dinamici come il digitale, il marketing, la tecnologia e le startup, il job hopping rappresenta quasi un passaggio obbligato per rimanere competitivi. Un modo per non sentirsi intrappolati, per cercare di costruire un percorso che sia davvero “su misura”.
Tuttavia, c'è un altro lato della medaglia. In un’epoca in cui l’instabilità è diventata quasi una costante, è fondamentale interrogarsi sul tipo di valore che si vuole creare – non solo per sé, ma anche per le realtà in cui si lavora. E qui emerge un nodo cruciale: costruire valore richiede tempo, fiducia e relazioni durature. Nessuna esperienza lavorativa, per quanto brillante o ben remunerata, può davvero generare impatto se vissuta come una tappa transitoria o strumentale.
Anche le imprese, dal canto loro, devono interrogarsi su come attrarre e trattenere talenti. Il turnover elevato comporta costi non indifferenti: reclutamento, formazione, calo di produttività. Ma soprattutto, rende difficile costruire una cultura aziendale solida, fondata su obiettivi condivisi e senso di appartenenza. È quindi interesse delle aziende investire in relazioni professionali autentiche, creare ambienti in cui i lavoratori si sentano parte di un progetto e non solo ingranaggi momentanei.
La vera sfida, per imprese e lavoratori, sta forse qui: trovare un equilibrio tra il desiderio – legittimo – di fare esperienze diversificate e la necessità – altrettanto essenziale – di stabilire legami professionali significativi. Perché la vera innovazione non nasce dal continuo cambiamento, ma dalla capacità di restare, crescere insieme, costruire nel tempo.
Guardando al contesto britannico, dove la stretta del mercato ha cominciato a porre un freno ai salti di carriera troppo frequenti, possiamo trarne un insegnamento utile anche per l’Italia. Non si tratta di demonizzare il job hopping, ma di chiederci: quale idea di lavoro vogliamo promuovere? Quella di un percorso fatto di frammenti, o quella di una storia coerente, costruita con pazienza e condivisione?
Il messaggio che emerge da questi dati è chiaro: per essere sostenibile, il lavoro non può essere solo una rincorsa alla prossima opportunità, al prossimo aumento di stipendio, al prossimo stimolo. Deve essere anche un luogo di relazione, di costruzione, di responsabilità reciproca. E questo vale tanto per chi lavora, quanto per chi dà lavoro.
L’Italia ha ora l’occasione – e forse anche l’urgenza – di ripensare il proprio modello lavorativo alla luce di queste dinamiche. Serve una cultura del lavoro che premi l’evoluzione personale, ma che valorizzi anche la continuità e la fedeltà. Un equilibrio possibile solo se aziende e lavoratori iniziano a parlarsi davvero, a progettare insieme, a immaginare il futuro come qualcosa da costruire – non da inseguire.
Se vogliamo affrontare le trasformazioni del lavoro con intelligenza e lungimiranza, dobbiamo riscoprire il valore del tempo lungo. Solo così potremo passare da una logica di consumo delle esperienze a una logica di crescita condivisa.