Due studi, due classifiche, un unico tema: come il remote work e le politiche sul lavoro stanno ridisegnando l’Europa
Negli ultimi anni l’equilibrio vita-lavoro è diventato uno dei parametri più osservati dalle imprese, dai policy maker e – naturalmente – dai lavoratori stessi. Non si tratta solo di ridurre le ore passate in ufficio, ma di comprendere come orari, welfare, sicurezza sociale, possibilità di remote work e cultura aziendale plasmino la qualità della vita.
Due nuovi studi, diffusi a fine agosto, hanno rimesso il tema al centro del dibattito: quello di JobLeads, portale internazionale del lavoro, e quello di Remote, piattaforma HR globale. Entrambi hanno analizzato i Paesi europei, ma con approcci diversi.
- JobLeads ha costruito la classifica partendo da dati su età pensionabile, ore lavorate, anni di carriera, tassi di burnout, giorni di malattia e diffusione del remote work.
- Remote, invece, ha confrontato le 60 economie più ricche al mondo (per PIL), incrociando sicurezza, diritti LGBTQ+, salari medi, orari, ferie e politiche di lavoro flessibile.
Il risultato? Due mappe parzialmente divergenti, ma con alcuni trend comuni che raccontano molto sul futuro del lavoro in Europa.
Lussemburgo e Irlanda: i due volti del primato
Secondo JobLeads, il Paese europeo più “bilanciato” è il Lussemburgo. Qui si lavora in media 35 ore a settimana, con circa 14 giorni di malattia garantiti ogni anno, e una carriera professionale che si chiude intorno ai 35 anni lavorativi. Non sorprende che i cittadini lussemburghesi possano contare su 47,8 anni della loro vita senza lavoro – il secondo dato più alto in Europa, subito dopo l’Italia (51 anni).
Attenzione però: il Lussemburgo registra anche un tasso di burnout dell’11,6%, superiore alla media. Una percentuale che gli analisti collegano proprio alla diffusione del remote work tra i lavoratori a tempo pieno: se la flessibilità offre più libertà, non sempre riduce lo stress.
Per Remote, invece, il primato europeo spetta all’Irlanda, che spicca non solo per retribuzioni e sicurezza, ma anche per la sua reputazione come uno dei Paesi più “safe” al mondo. Nella classifica globale, Dublino si colloca appena sotto la Nuova Zelanda, al primo posto assoluto.
Belgio: un outsider sempre in crescita
Il Belgio non conquista il podio in nessuno dei due ranking, ma ottiene ottimi piazzamenti in entrambi: terzo nella classifica Remote e quarto in quella JobLeads.
I dati parlano chiaro: i belgi lavorano in media 34,1 ore a settimana, meno di francesi, lussemburghesi e svedesi. In più, garantiscono tutele ampie: ferie, malattia, congedi parentali. Con un altro primato importante: 14,3% dei dipendenti lavora in modalità ibrida o full remote work, il valore più alto d’Europa insieme alla Svezia.
L’unico neo è l’età pensionabile, fissata a 66 anni, superiore a quella di altri Paesi che compaiono più in alto nelle classifiche.
Germania e Francia: due pesi massimi, due storie diverse
La Germania dimostra di restare un Paese competitivo soprattutto nel confronto globale. È quarta nel ranking Remote grazie all’aumento del congedo per malattia e al miglioramento degli indici di felicità e inclusione LGBTQ+. Tuttavia, in Europa i numeri sono meno brillanti: si va in pensione a 67 anni, con una carriera media di 40 anni e un burnout al 10,2%. Anche qui il remote work è significativo: circa il 12% dei dipendenti lo adotta almeno in parte.
La Francia, invece, mostra un forte scarto tra i due studi: seconda per JobLeads e appena 16ª per Remote. I francesi lavorano in media 37 anni, con un’età pensionabile fissata a 64 (la più bassa tra i grandi Paesi europei), e settimane da 35,6 ore. Burnout più basso rispetto a Svezia e Belgio, e un’adozione del remote work attorno al 16% della forza lavoro. Tuttavia, sul piano internazionale paga salari meno competitivi e tutele percepite come meno solide.
E l’Italia?
L’Italia compare indirettamente solo in un dato: gli italiani risultano quelli che, in media, vivono più anni “senza lavoro” – circa 51. È il valore più alto in Europa. Ma non è necessariamente un merito.
Perché se da un lato significa poter godere più a lungo della pensione, dall’altro racconta di un sistema del lavoro con carriere spesso frammentate, alti tassi di inattività, bassa occupazione femminile e una diffusione del remote work ancora molto limitata rispetto ai Paesi citati.
Secondo i dati Eurostat, la quota di lavoratori italiani in modalità ibrida o remote work si aggira attorno al 6%, meno della metà del Belgio o della Svezia. A questo si aggiungono orari medi più lunghi (circa 36 ore settimanali dichiarate, ma spesso più elevate nella pratica) e un tasso di burnout che, pur non emergendo in queste ricerche, si riflette in record di stress e assenze.
In sintesi: l’Italia vince solo in un indicatore “passivo” – gli anni fuori dal lavoro – ma perde terreno dove davvero si misura la qualità della vita lavorativa. Non basta vivere più a lungo senza lavorare: serve poter lavorare meglio quando si è attivi.
Remote work come leva (ancora poco sfruttata)
Il confronto europeo dimostra che i Paesi che performano meglio sul fronte work-life balance sono anche quelli che hanno saputo integrare meglio il remote work nelle loro politiche e pratiche aziendali.
Non si tratta solo di permettere qualche giorno da casa, ma di ridefinire i modelli organizzativi. Belgio, Svezia e Germania hanno introdotto misure chiare che incentivano la flessibilità, riducendo non solo i tempi di commuting ma anche le disuguaglianze tra chi può e chi non può accedere al lavoro “ibrido”.
In Italia, al contrario, il remote work rimane ancora percepito come un’eccezione, spesso confinata ai grandi centri urbani e a settori specifici (tecnologia, servizi finanziari, multinazionali). Una miopia che rischia di escludere milioni di lavoratori, soprattutto nelle aree interne, dove invece il lavoro a distanza potrebbe rappresentare un enorme driver di inclusione e rigenerazione territoriale.
I dati di JobLeads e Remote ci dicono che il futuro del lavoro in Europa passa dall’equilibrio tra produttività e benessere. Non è solo una questione di ore settimanali o età pensionabile, ma di costruire sistemi che mettano le persone in condizione di vivere e lavorare meglio.
Per l’Italia la sfida è chiara: trasformare il primato “paradossale” degli anni fuori dal lavoro in un vantaggio reale, investendo su remote work, welfare aziendale, riduzione dello stress e opportunità di crescita. Solo così potremo parlare davvero di work-life balance.