Ogni settimana, i social ci servono la solita minestra riscaldata: video di ventenni in pareo che digitano su un laptop a bordo piscina, caption tipo “quit your 9-to-5 and live free”, e sotto una valanga di commenti entusiasti.
Libertà, dicono.
Solo che, come scrive Ruby Borg sul Sunday Telegraph, la libertà vera non c’entra niente con la fuga dal lavoro.
La sua storia è quella di molti: un lavoro ibrido dopo l’università, due giorni in ufficio, poi la tentazione di mollare tutto per diventare “imprenditrice di sé stessa” da una spiaggia in Spagna. Orari flessibili, guadagni buoni, autonomia totale.
Il sogno Gen Z, insomma.
Fino a quando la realtà non bussa con forza: niente confini tra tempo libero e lavoro, senso di colpa costante, isolamento, e la scoperta che il “non avere capi” spesso significa averne uno solo, molto più severo — te stesso.
Borg oggi è tornata in ufficio. Cinque giorni su cinque, ventotto giorni di ferie, colleghi veri, scadenze vere.
E, dice, finalmente si sente realizzata. Non perché il nomadismo fosse sbagliato, ma perché la versione che ci vendono online è una caricatura. Una libertà finta, confezionata come un filtro Instagram.
Il problema non è “lavorare da remoto”, ma l’idea che la libertà coincida con l’assenza di struttura.
Essere nomadi digitali — quelli veri, non i protagonisti dei reel — significa costruirsi una disciplina interiore più solida di qualsiasi orario aziendale.
Vuol dire svegliarsi quando nessuno ti obbliga, consegnare senza che nessuno ti insegua, farsi rete, mercato e motivazione da soli.
Vuol dire capire che l’indipendenza non è un’assenza di regole, ma la capacità di darsene di proprie.
Perché la verità è semplice e scomoda: chi “molla tutto” senza sapere cosa vuole davvero, spesso non trova libertà ma disorientamento.
E chi invece riesce a lavorare da remoto, viaggiare e vivere con senso — quello sì che ha trovato una forma nuova di libertà, costruita su responsabilità, non su evasione.
Oggi milioni di giovani inseguono hashtag come #QuitTok o #SoftLife, ma dietro c’è un messaggio velenoso: che il lavoro sia sempre tossico, e che la felicità cominci solo quando smetti di avere obblighi.
Peccato che la vita adulta funzioni al contrario: i limiti danno direzione, la routine crea sicurezza, e la libertà è solo una conseguenza di entrambe.
Essere nomadi digitali non è scappare dal lavoro, è riscriverne le regole.
È imparare a non confondere la flessibilità con l’assenza di impegno, la leggerezza con la superficialità, e il “non avere un capo” con il “non avere responsabilità”.
Non è un modo per lavorare meno — è un modo per lavorare meglio, spesso più, ma con un senso che non dipende dal badge o dal cartellino.
Forse il vero slogan dovrebbe essere un altro:
non “quit your job”, ma “own your work”.
Perché la libertà, quella vera, non nasce dal rifiuto del lavoro — nasce dal modo in cui scegli di farlo tuo.
Articolo originale comparso su nomag.world