Tre anni dopo la pandemia: il remote working è ancora vivo?
Sono passati più di tre anni dalla fine ufficiale della pandemia. Le aziende sono tornate a pianificare sul lungo termine, le città hanno ripreso il loro ritmo, e molte persone si sono rese conto che tornare al “prima” non è né possibile né auspicabile. Una delle trasformazioni più profonde del mondo del lavoro è quella che riguarda il remote working – il lavoro remoto vero e proprio, che non prevede la presenza in ufficio se non in modalità ibrida o per necessità specifiche.
Secondo il Global Survey of Working Arrangements (G‑SWA), condotto in oltre 40 Paesi, nel 2025 i lavoratori laureati lavorano in media da remoto 1,27 giorni a settimana, pari a circa il 25 % delle giornate lavorative totali (Hoover Institution, 2025).
Un dato stabile, che conferma una tendenza di fondo: il remote working non è stato una parentesi. È diventato una componente strutturale e richiesta da una fascia crescente di lavoratori, soprattutto nei Paesi con un’economia avanzata.
Smart working ≠ Remote working: non è solo una questione di lingua
In Italia si è diffuso il termine “smart working”, mutuato dal lessico aziendale anglosassone ma con un significato tutto nostro. Nel nostro ordinamento, “lavoro agile” (introdotto con la Legge 81/2017) indica una modalità flessibile di esecuzione della prestazione lavorativa: senza vincolo di luogo né di orario fisso, ma con una certa alternanza tra presenza e distanza.
Il remote working è un’altra cosa: è lavoro svolto a distanza, nella sua totalità o quasi, spesso da qualsiasi luogo, con piena autonomia operativa. Mentre lo smart working italiano richiede ancora (di fatto) una base logistica in ufficio e una forte regolamentazione, il remote working è più radicale, decentralizzato e internazionale.
Dove il remote working è rimasto solido
Regno Unito
Il Regno Unito è oggi il Paese europeo con il più alto tasso di remote working: 1,8 giorni a settimana in media (The Times, 2025). Le aziende stanno cercando di riportare i dipendenti in ufficio, ma i lavoratori resistono: il 58 % preferirebbe cambiare lavoro piuttosto che rientrare a tempo pieno.
Paesi Bassi
Tra i più aperti al lavoro remoto, anche nel pubblico. Il remote working è stato reso diritto di legge già dal 2015, e oggi oltre il 40 % dei lavoratori ha accesso regolare a formule flessibili, con una media stabile di 1,5 giorni a settimana.
Francia
La Francia ha introdotto incentivi strutturali per il telelavoro nel settore pubblico e in grandi aziende private. Tuttavia, la media resta più bassa: circa 0,9 giorni a settimana, con grandi differenze tra Parigi e il resto del Paese.
Germania
Più prudente rispetto ai Paesi del Nord, ma la pandemia ha lasciato il segno. Le aziende manifatturiere hanno limitato il remote working, mentre i settori digitali e amministrativi viaggiano su 1,2 giorni a settimana in media.
Spagna
Anche la Spagna ha introdotto norme specifiche post-pandemia. Il lavoro remoto riguarda circa il 13–15 % della forza lavoro, in particolare a Madrid e Barcellona, dove l’infrastruttura digitale è più sviluppata.
Australia
Secondo dati del 2024, oltre il 36 % degli australiani lavora regolarmente da remoto. Il dato è stabile e superiore alla media globale. Anche qui, però, i CEO premono per un ritorno parziale all’ufficio, seppur riconoscendo il valore della flessibilità (news.com.au).
Stati Uniti e Canada
Nel mondo anglosassone, il remote working è ormai integrato nelle strategie HR. Le aziende tecnologiche come Google e Meta stanno cercando un ritorno parziale in sede, ma i dati del WFH Research Project mostrano che almeno il 30 % delle ore lavorative sono ancora svolte a distanza (Barrero et al., 2025).
E l’Italia?
Secondo uno studio del 2024 pubblicato su Scienze Regionali, i lavoratori italiani lavorano in media 1,45 giorni da remoto a settimana, in linea con la media europea. Ma la distribuzione è molto disomogenea: chi lavora da remoto spesso lo fa più di 3 giorni su 5, mentre una larga fetta della popolazione lavorativa non ha mai avuto accesso al lavoro da remoto (Sciencedirect, 2024).
Tra i limiti principali:
- l’eccessiva burocratizzazione del “lavoro agile”,
- la mancanza di cultura manageriale orientata alla fiducia e all’output,
- la fragilità delle infrastrutture digitali, soprattutto nel Sud e nelle aree interne.
Nonostante questo, una crescente minoranza (il 37 %) dei lavoratori italiani si dichiara disposto a lavorare da remoto per più di due giorni a settimana, se l’azienda lo consentisse.
Perché il remote working è più di una scelta organizzativa
Il remote working non è solo una questione di dove si lavora. È una scelta di vita: consente di abitare dove si vive meglio (non dove si deve), riduce l’impatto ambientale, migliora l’equilibrio tra lavoro e vita privata. E soprattutto ridistribuisce valore sul territorio, favorendo la rinascita di aree che erano state marginalizzate dalla concentrazione urbana.
Non a caso stanno nascendo esperienze di “ritorno” ai borghi, ai piccoli centri, alle comunità resilienti. In Italia, iniziative come quelle in Molise, Sicilia, Calabria e Salento stanno dimostrando che il lavoro remoto può diventare motore di rigenerazione.
Remote Workers for Remote Villages è tornato!
Se ti interessa il tema, se lavori da remoto, se vivi (o vorresti vivere) in un piccolo paese, c’è un’occasione per raccontare e condividere la tua esperienza: è partita la nuova edizione di Remote Workers for Remote Villages.
La serie riparte il 4 settembre con 10 nuovi episodi, in diretta su Substack e LinkedIn dai profili di NOMAG, ITS Journal e Smart Working Magazine.
Vuoi partecipare con la tua storia o proporre una testimonianza? Scrivici a info@itsfor.it con oggetto “Remote”.
La serie è realizzata con il supporto di Kinsta, partner tecnico e sponsor dell’iniziativa.
Hai perso il pilot del 29 luglio? Puoi rivedere l’intero episodio sul nostro profilo LinkedIn!