Quando parliamo di remote working, pensiamo spesso a coworking metropolitani, a startup con sede a Berlino o a team sparsi tra Bali e Lisbona.
Ma esiste un’altra forma, più silenziosa e forse più autentica, di lavoro distribuito: quella che nasce nei piccoli centri, dove la connessione non è solo digitale, ma anche umana.
È da qui che parte la storia di Nicolas Verderosa e del suo team, un gruppo che lavora dall’Irpinia — un paese di circa 3.000 abitanti — gestendo oggi oltre 420 proprietari di immobili, l’80% nelle aree interne italiane, con un modello ibrido fatto di persone locali e collaboratori remoti.
L’impresa che nasce dove nessuno guarda
Ho conosciuto Nicolas anni fa, quando mi capitò di “mettere alla prova” il suo modello di business in un articolo per Startup-News.it.
La sua idea mi incuriosiva e, lo ammetto, mi lasciava anche qualche dubbio: si può davvero costruire una realtà scalabile partendo da un borgo dell’Appennino campano?
Oggi, dopo averlo visitato e visto all’opera, posso dire di sì.
Il segreto è nella mentalità da remoto applicata a un contesto che, a prima vista, remoto lo è davvero.
La sfida non è solo tecnologica, ma culturale: formare persone che restano dove vivono, connesse al mondo, e allo stesso tempo attirare talenti digitali che lavorano a distanza, mantenendo il senso di squadra.
Costruire un team distribuito (che si sente vicino)
Il modello organizzativo è un esempio concreto di distributed leadership: poche gerarchie, molta responsabilità diffusa.
La parola chiave è fiducia.
Il lavoro ibrido qui non è un compromesso, ma un equilibrio: la sede in Irpinia resta un punto di incontro, ma la collaborazione si estende tra regioni e competenze.
Si lavora in azienda o da casa, ma anche nei borghi che si vogliono rigenerare; si usano strumenti digitali, ma si costruiscono relazioni fisiche e stabili.
Il risultato è un modello di impresa che non misura la produttività in ore, ma in impatto.
Un impatto che si traduce in case riaperte, microeconomie locali che ripartono e un team che si riconosce nel progetto.
Il management (remoto) come pratica di comunità
Gestire un’azienda da un luogo periferico non è un limite, se il mindset è distribuito.
Anzi, la distanza geografica può diventare un vantaggio.
“Quando il tuo team è abituato a lavorare da remoto, ogni membro impara ad essere autonomo, ma anche più empatico — perché la comunicazione richiede intenzione,” spiega Nicolas.
Remote work come forma di rigenerazione
Ciò che rende questo caso interessante per chi si occupa di smart working non è solo la tecnologia o il business model, ma l’impatto.
Il lavoro remoto qui non è un privilegio individuale, ma un modo per redistribuire opportunità.
Un team che lavora da un borgo porta con sé una diversa scala di valori: equilibrio, tempo, relazioni.
In un momento storico in cui molte aziende si interrogano sul senso del lavoro ibrido, esperienze come questa mostrano che si può innovare senza concentrarsi solo nei grandi centri.
Anzi, è proprio nei luoghi “remoti” che il lavoro distribuito trova la sua dimensione più autentica: quella che non isola, ma connette.
Forse il futuro del lavoro non è ovunque, ma da ogni dove con uno scopo.
E a volte quello scopo nasce proprio in un borgo dove nessuno pensava che un’impresa potesse crescere.
Un ringraziamento come sempre ai partner della serie Remote Workers for Remote Villages e a StreamYard per le dirette.
La serie prosegue ‘nomade’ dalla Puglia alla Sicilia, dalla Toscana alle Marche, raccontando storie che dimostrano come il futuro del lavoro da remoto passi anche da borghi e comunità che hanno molto da offrire (programma integrale su www.itsjournal.com)
SmartWorking Magazine è media partner della Serie