Sembra che al mondo del lavoro serva sempre una nuova etichetta. Dopo il “quiet quitting”, ecco arrivare il “quiet cracking”: il silenzioso incrinarsi del rapporto con il proprio lavoro. Non è un vero e proprio burnout, ma è quella sensazione sottile – e sempre più diffusa – di essere insoddisfatti, demotivati, ma allo stesso tempo incapaci di fare qualcosa per cambiare.
Il “quiet cracking” è quella crepa invisibile che si apre quando ti senti bloccato: non odi abbastanza il tuo lavoro da mollare tutto, ma non riesci neanche a ritrovare entusiasmo. Resti lì, in una zona grigia di frustrazione, apatia e resistenza passiva. Non esplodi, ma ti consumi lentamente.
Perché non si molla?
La domanda sorge spontanea: se sei infelice, perché non te ne vai? La risposta è meno scontata di quanto sembri. In un mercato in cui trovare un nuovo impiego non è così facile, molti si sentono quasi “fortunati” ad avere uno stipendio, anche se il prezzo è la propria motivazione.
Altri restano per paura: paura che il nuovo lavoro sia identico al vecchio, paura di rischiare, paura di peggiorare la propria condizione. E così, il risultato è lo status quo: si resta, si resiste, si incrina.
Dal “quiet quitting” al “quiet cracking”
Qualche anno fa si parlava del fenomeno opposto: persone che ridimensionavano l’impegno al lavoro, senza per questo lasciarlo. Una forma di autodifesa, di boundaries. Ora invece siamo nel tempo del “quiet cracking”, che non è disincanto strategico, ma stanchezza silenziosa.
La differenza? Il “quiet quitting” era una scelta: fare il minimo indispensabile per non farsi fagocitare. Il “quiet cracking” è un malessere non scelto, che rischia di diventare cronico se non lo si affronta.
Sintomi e rischi
I segnali ricorrenti?
- Fatica costante, anche senza sovraccarico reale.
- Perdita di motivazione.
- Sensazione di non essere ascoltati o valorizzati.
- Un logorante senso di immobilità.
Se non riconosciuto e gestito, questo stato può scivolare lentamente nel burnout vero e proprio.
E allora, che si fa?
La vera sfida, oggi, non è inventarsi l’ennesimo slogan, ma imparare a reagire prima che le crepe diventino fratture. Alcune direzioni possibili:
- Parlare, non tacere: il “quiet cracking” prospera nel silenzio. Portare il tema in azienda, anche con coraggio, può aprire spiragli.
- Chiedere piccoli cambiamenti: non serve sempre cambiare lavoro, a volte basta ridefinire ruoli, orari, priorità.
- Coltivare alternative: corsi, side project, nuove competenze possono restituire un senso di movimento e di possibilità.
- Rimettere in prospettiva: capire cosa davvero conta per sé, e se il lavoro è ancora uno strumento utile per quel percorso.
Forse il “quiet cracking” è solo l’ennesimo tentativo di raccontare in inglese un malessere universale: la fatica di restare motivati in contesti rigidi, esigenti, e sempre meno capaci di ascoltare.
La verità è che, al di là delle mode linguistiche, i lavoratori stanno mandando un messaggio chiaro: non basta avere un posto, serve avere un perché.