Come sempre, Pilita Clark sul Financial Times riesce con precisione chirurgica a infilare il bisturi nel fianco delle contraddizioni aziendali globali. Il suo ultimo articolo, dedicato alle politiche di ritorno in ufficio (Return to Office, RTO) promosse da grandi multinazionali, mette in luce una realtà che molti lavoratori già sospettavano: le regole del gioco non sono uguali per tutti. E in particolare, non lo sono per chi sta ai vertici.
Clark prende spunto da un caso emblematico: Filippo Gori, alto dirigente di JPMorgan, ex capo delle attività per l’Asia-Pacifico, poi trasferitosi a Londra per assumere la guida della divisione EMEA (Europa, Medio Oriente e Africa) e, ora, in procinto di spostarsi a New York. Un incarico globale, certo, che richiede mobilità, ma che solleva anche una questione tanto sottile quanto potente: come può un top executive gestire affari da Lagos a Londra risvegliandosi ogni mattina sulla costa est degli Stati Uniti? Più ancora: perché ai dipendenti si chiede di essere presenti cinque giorni su cinque in ufficio, mentre ai dirigenti è concesso di essere operativi ovunque — spesso proprio da remoto?
Doppio standard: un problema di equità
Il caso JPMorgan non è isolato. Jamie Dimon, CEO della banca, è uno dei più accesi detrattori del lavoro da casa, convinto che questo ostacoli la produttività, la creatività e la crescita professionale dei più giovani. Tuttavia, non è raro scoprire che proprio i manager più vicini al vertice godano di una libertà che ai livelli più bassi della piramide viene negata. Come ironizza un lettore del FT, “RTO per voi, smart working da NYC per me”.
Clark evidenzia come questa disparità stia alimentando non solo frustrazione tra i lavoratori, ma anche una persistente resistenza al pieno ritorno in ufficio. I numeri parlano chiaro: secondo i dati più recenti, il lavoro da remoto negli Stati Uniti si è stabilizzato attorno al 27%, ben lontano dal picco del 60% durante la pandemia, ma ancora molto al di sopra dei livelli pre-Covid, che si aggiravano sotto il 10%.
Il paradosso è evidente: più aumentano gli editti aziendali che impongono il rientro, più i dipendenti sembrano trovare il modo — o la motivazione — per restare a casa. E questo anche in contesti in cui il potere contrattuale è tutto a favore del datore di lavoro, come nel caso delle grandi banche d'investimento.
Il mito dell'efficienza in presenza
Ma da dove nasce questa ostinazione dei dirigenti a volere tutti in sede? Clark suggerisce che alla base ci sia una visione novecentesca del lavoro: quella del controllo visivo, della collaborazione fisica come unico veicolo di innovazione, della scrivania come misura della dedizione. Eppure, la realtà odierna sembra smentire questa narrativa. In molti settori, il lavoro da remoto ha dimostrato di essere più efficiente, più sostenibile, e, soprattutto, più apprezzato da chi lavora.
Il problema diventa allora non tanto organizzativo, quanto simbolico: se l’azienda obbliga i dipendenti a rientrare, ma i suoi leader non danno l’esempio, il messaggio che passa è quello di un potere arbitrario, diseguale. Il rischio è quello di minare la fiducia interna, già messa a dura prova in anni di crisi, ristrutturazioni, e burnout.
Le piccole imprese fanno scuola
Clark nota anche che, fuori dal mondo dei giganti finanziari, molte aziende più piccole hanno scelto di mantenere una maggiore flessibilità, non tanto per bontà d’animo, ma per semplice convenienza: meno costi, meno conflitti, più soddisfazione. In altre parole, un compromesso che funziona.
Non è un caso che le percentuali di compliance alle regole RTO siano ancora basse. I dati mostrano che, tra coloro che lavorano da casa almeno un giorno a settimana, solo il 49% si dice disposto a rispettare un ordine di ritorno forzato. Il restante 51% preferirebbe cercare un altro impiego. E questo, sottolinea Clark, vale a maggior ragione se chi impartisce l’ordine continua a lavorare con flessibilità da una località privilegiata.
Il futuro del lavoro si scrive oggi
C’è in tutto questo un interrogativo più ampio: quale sarà il modello vincente nei prossimi anni? La spinta verso un ritorno massiccio in ufficio potrebbe ridursi a una parentesi, un riflesso di nostalgie manageriali più che una reale esigenza produttiva. Oppure assisteremo a una stratificazione dei diritti: i lavoratori comuni vincolati alla scrivania, i leader liberi di spostarsi secondo le proprie esigenze?
Pilita Clark non offre risposte facili. Ma, come sempre, solleva domande scomode che mettono a nudo le ipocrisie del potere. In un mondo del lavoro sempre più frammentato e globale, forse il vero atto rivoluzionario è chiedere coerenza a chi comanda. Perché la distanza che conta non è quella geografica, ma quella tra le regole scritte e quelle vissute.