Per chi ha lavorato nel mondo HR negli ultimi vent’anni, c’è un’immagine ricorrente: manager e leader di team alle prese con il dilemma eterno della delega.
Si parla di “empowerment”, di “fiducia”, di “ownership”, ma poi nella pratica i processi di approvazione restano a cinque livelli, le firme digitali passano per quattro scrivanie virtuali e ogni progetto deve avere il bollino del capo prima di procedere.
Perché? Le ragioni sono molteplici:
- Paura di perdere il controllo
- Dubbi sulle competenze del team
- Tendenza al micromanagement
- E, non ultima, la sopravvalutazione delle proprie capacità (il famoso “se non lo faccio io, non viene bene”)
Il risultato: collaboratori demotivati, processi rallentati, e un’azienda che in teoria predica agilità ma in pratica naviga a velocità da traghetto degli anni ’70.
E poi arriva l’Intelligenza Artificiale
Negli ultimi due anni, però, è successa una rivoluzione silenziosa.
Abbiamo iniziato a “delegare” non a colleghi in carne e ossa, ma ad algoritmi. Generiamo testi, analisi, previsioni, persino valutazioni di performance con strumenti AI. E lo facciamo con una fiducia quasi disarmante.
La stessa azienda che esigeva cinque check umani prima di approvare una brochure oggi copia-incolla testi generati da un modello linguistico e li pubblica sul sito aziendale in poche ore.
Il manager che non lasciava gestire un cliente a un junior senza essere in copia in ogni email ora lascia che un assistente AI scriva direttamente proposte commerciali.
Dal sospetto verso il collega alla fiducia cieca verso l’algoritmo
È un paradosso affascinante (e un po’ inquietante):
- Con i colleghi, ci preoccupiamo di verificare ogni passaggio
- Con l’IA, diamo per buono quasi tutto, a volte senza nemmeno leggere fino in fondo
Il punto non è demonizzare l’AI — anzi, chi lavora nel mondo agile sa bene quanto possa accelerare processi e liberare tempo per attività a maggiore valore aggiunto.
Il problema è la qualità della delega e la responsabilità che ne deriva.
Perché succede?
Alcune ipotesi:
- Illusione di neutralità – Pensiamo che l’IA sia “oggettiva” e priva di bias, quindi più affidabile di un umano. Spoiler: non è così.
- Velocità – L’AI consegna subito, senza negoziazioni, ferie o malattie. Questo abbassa le difese critiche.
- Scarico di responsabilità implicito – Se sbaglia un collega, la colpa ricade su di noi per non averlo supervisionato. Se sbaglia l’AI, possiamo sempre dire “è stato il sistema”.
- Fascino tecnologico – Un algoritmo ci appare come “più intelligente” di chi non ha un’aura di novità digitale.
La vera domanda: delega o abdicazione?
Delegare significa dare fiducia mantenendo chiari obiettivi, responsabilità e controllo di qualità.
Abdicare significa rinunciare del tutto al controllo, sperando che l’altro (umano o algoritmo) faccia tutto bene.
Con l’AI, spesso stiamo abdicando — e il rischio è doppio:
- Rischio operativo: errori, dati falsi, decisioni sbagliate
- Rischio culturale: perdita di senso critico e di capacità di verifica
Il nodo HR e lavoro agile
Nel lavoro agile, la delega è linfa vitale. Senza fiducia reciproca, il remote working diventa una gabbia fatta di report continui e call di controllo.
Se imparassimo a fidarci dei nostri collaboratori tanto quanto ci fidiamo di un algoritmo, avremmo aziende più veloci, motivate e resilienti.
Ma questo richiede formazione, cultura organizzativa e un approccio alla leadership che sappia ammettere di non essere tuttologi e valorizzare le competenze diffuse.
L’AI è uno strumento straordinario, ma la vera rivoluzione sarà imparare a gestire la fiducia allo stesso modo con cui la offriamo a persone e algoritmi.
Non si tratta di scegliere tra umano o macchina: si tratta di garantire che, in entrambi i casi, la delega sia consapevole, monitorata e fondata su un patto chiaro di responsabilità.
In fondo, se siamo pronti a dare fiducia a un modello di machine learning allenato su miliardi di dati, possiamo fare lo stesso con una persona allenata da anni di esperienza.