Quando la flessibilità rischia di diventare un equivoco generazionale
Prima lo smart working, poi lo stipendio. È questo il titolo a effetto che emerge dalla 35ª edizione dell’indagine “Giovani & lavoro”, condotta dal Gidp (Gruppo italiano direttori del personale), che raccoglie oltre 4.500 HR manager, in gran parte attivi nelle grandi aziende.
Un sorpasso storico: per la prima volta nei colloqui, i giovani candidati chiedono come priorità assoluta la possibilità di lavorare in smart working o con orari flessibili, relegando stipendio e benefit al secondo posto e la chiarezza delle mansioni al terzo. Un ribaltamento radicale rispetto a un anno fa, quando la flessibilità era soltanto al terzo posto delle priorità.
A prima vista sembra il coronamento di anni di dibattito: la cultura del lavoro agile ha vinto. Ma chi, come noi di Smart Working Magazine, segue questo tema dalla nascita, non può non notare una contraddizione: siamo sicuri che i giovani sappiano davvero cosa stanno chiedendo?
Smart working non è (solo) lavoro da remoto
Il rischio, infatti, è di ridurre lo “smart working” a sinonimo di “remote working”. Eppure il lavoro agile è molto di più: è un modello organizzativo basato su autonomia, responsabilità, strumenti digitali, fiducia, nuovi stili di leadership e collaborazione.
Lavorare da remoto può esserne una parte, ma non è la sostanza. Se tutto si riduce al “poter lavorare da casa”, il concetto perde la sua forza trasformativa e diventa solo un benefit logistico.
Il paradosso dei giovani: perdere ciò che serve di più
Il paradosso è che proprio i più giovani avrebbero più da guadagnare dalla presenza in ufficio o comunque dal lavoro in team. È lì che si imparano le soft skills, che si osservano i colleghi, che si sviluppano capacità comunicative e relazionali.
Lo dice la stessa ricerca: nel 90% delle aziende oggi convivono tre o più generazioni. Questa diversità è una ricchezza, ma anche una sfida. Differenze di linguaggio, di aspettative, di utilizzo degli strumenti digitali. Eppure solo il 23,7% delle imprese ha attivato programmi strutturati di mentoring per gestire questo incontro-scontro.
Tradotto: i giovani chiedono flessibilità, ma raramente ricevono il supporto per trasformarla in crescita.
Un mismatch su due fronti
Il problema allora non è solo il mismatch tra domanda e offerta di competenze tecniche (le aziende dichiarano che nel 26,2% dei casi i neolaureati devono essere formati internamente dopo l’assunzione, e nel 23% non si trovano diplomati tecnici pronti).
C’è anche un mismatch culturale: tra la percezione del lavoro (libertà, remoto illimitato, work-life balance) e la realtà del lavoro agile, che richiede maturità, strumenti e condivisione.
Se i giovani pensano che “smart working” significhi semplicemente non timbrare il cartellino e lavorare dal divano, rischiano di costruirsi aspettative fragili.
La vera sfida: educare al lavoro agile
Le aziende devono affrontare un compito delicato: non basta concedere giorni di remote work. Bisogna educare al lavoro agile, che contempli flessibilità sì, ma anche collaborazione, mentoring, alternanza tra presenza e distanza, sviluppo di competenze trasversali.
Perché la flessibilità senza cultura organizzativa diventa isolamento. E la libertà senza responsabilità diventa illusione.
Lo smart working è una conquista. Ma se lo riduciamo a un “sogno remoto”, rischiamo di crescere una generazione di lavoratori liberi di accendere Zoom, ma incapaci di accendere davvero il proprio percorso professionale.