Dal “Gen Z Stare” all’imbarazzo del “pronto” mancato: se ne parlano Business Insider e Financial Times, allora forse non erano solo impressioni. E per il mondo del lavoro remoto, c’è molto da riflettere.
Certe cose ti sfuggono finché non diventano talmente evidenti da non poter più essere ignorate. E quando cominci a leggerle nero su bianco — su testate come Business Insider o Financial Times — capisci che quel tuo “strano feeling” era condiviso. Non era un tuo bias generazionale. Era l’inizio di un cambiamento che stavi già vivendo sulla pelle, nei meeting su Zoom, nei colloqui con stagisti, nelle chat su Slack.
Due articoli usciti a poche ore di distanza l’uno dall’altro raccontano, da prospettive diverse, lo stesso disagio. E pongono una domanda fondamentale: cosa stiamo perdendo (o forse guadagnando?) nella comunicazione intergenerazionale sul lavoro?
Il ritorno dello sguardo vuoto: “Gen Z Stare”
Secondo un sondaggio condotto da Business Insider, il 59,3% dei lettori intervistati ha dichiarato di aver sperimentato il cosiddetto “Gen Z stare”. Cos’è? Uno sguardo fisso, occhi spalancati, nessuna risposta immediata a una domanda o un tentativo di small talk. Un silenzio visivo che, nella migliore delle ipotesi, disorienta. Nella peggiore, paralizza l’interazione.
Per molti è solo l’ennesimo capitolo del generational blaming. Prima erano i millennial con l’avocado toast, ora tocca alla Gen Z con lo sguardo inquietante. Ma i racconti raccolti mostrano che il fenomeno non è solo meme o folklore digitale: emerge un pattern reale di difficoltà comunicativa, soprattutto nei contesti lavorativi.
Una manager racconta: “Lavoro con giovani della Gen Z. Non tutti, ma molti faticano a iniziare una conversazione, specialmente se lavorano nelle vendite. Manca la proattività, il ‘rompere il ghiaccio’”. Un altro lettore definisce la generazione “cauta, in attesa, diffidente dopo anni di rifiuti nel mondo dello studio e del lavoro”.
C'è chi parla di generazione “interstiziale”, sospesa tra un passato analogico mai vissuto e un presente iperconnesso che richiede filtri, emoji e autodifesa. Il “Gen Z Stare” sarebbe allora un atto di resistenza passiva. Uno scudo, non una negligenza.
Pronto? Nessuna risposta.
Ma la vera mazzata arriva dal Financial Times, con un articolo di Pilita Clark che fotografa un altro trend: i giovani rispondono al telefono senza dire “pronto”, “ciao” o altro. Solo silenzio.
Un recruiter racconta: “Li chiamo all’orario stabilito, dopo aver mandato una mail di promemoria. Loro rispondono, ma stanno zitti. Sento solo il respiro e i rumori di fondo”.
Un comportamento che può sembrare scortese, ma che nasconde motivazioni più complesse. C’è chi lo fa per evitare truffe vocali o per paura di spam. Ma resta il fatto che, sul lavoro, la mancanza di una semplice parola iniziale può creare un vuoto relazionale enorme. Un silenzio che non comunica sicurezza, ma distanza.
Un dato interessante: il 40% dei giovani britannici tra i 18 e i 24 anni ritiene accettabile rispondere a una chiamata senza salutare. Percentuale che crolla al 14% tra gli over 45. Due mondi separati da un “ciao” mancato.
Mary Jane Copps, esperta di comunicazione telefonica in Canada, conferma: molte aziende la ingaggiano per formare giovani dipendenti che non sanno più parlare al telefono. Fino a $3.100 al giorno per insegnare quello che una volta imparavi da tua nonna.
Quando il silenzio costa (caro)
Nel mondo del lavoro ibrido e remoto, la comunicazione è il vero collante. E se la comunicazione si inceppa, anche la produttività, il clima di squadra, la fiducia reciproca vacillano.
Un giovane brillante che sa dire “ciao” oggi ha più possibilità di emergere che mai.
Sembra ridicolo, ma è vero: basta poco per distinguersi, in un contesto in cui la soglia minima di interazione umana è in discesa libera.
Allo stesso tempo, non possiamo ignorare il contesto culturale e psicologico in cui questi nuovi comportamenti si sono formati: paura dello spam, iper-esposizione digitale, burnout precoce, pandemia, solitudine, iper-efficienza comunicativa (scrivo, non parlo). Tutto ha contribuito a creare nuove norme, nuove “sottrazioni sociali”.
E ora? Lavoro, ascolto, adattamento.
Il mondo del lavoro non può più ignorare questi segnali. I responsabili HR, i team leader, i coworker devono smettere di etichettare questi comportamenti come “maleducazione” e iniziare a leggerli come sintomi. Non per giustificare tutto, ma per costruire ponti.
Una chiamata che inizia con “ciao” non è solo una formalità: è una soglia.
Uno sguardo assente può essere un campanello d’allarme, non solo una mancanza di interesse.
Il lavoro remoto, per quanto flessibile e liberatorio, non può permettersi di trascurare l’empatia e la cura delle relazioni interpersonali. La tecnologia cambia, ma il bisogno di sentirsi visti, accolti, ascoltati resta identico. Sta a noi — di ogni generazione — trovare i codici per continuare a parlarci.
Non è nostalgia per il passato, né condanna del futuro. È la presa d’atto che qualcosa si è rotto, o forse solo trasformato. E che il lavoro — remoto, ibrido o tradizionale — non è solo performance, ma anche presenza.
Sì, ora lo sappiamo. Lo “stare” muto della Gen Z e il “non-ciao” al telefono non erano stranezze isolate. Erano indizi. E ora che li vediamo tutti, possiamo (e dobbiamo) iniziare a rispondere.
Anche solo con un: “Pronto?”