C’erano una volta le great resignations. Poi è arrivato il grande realismo.
Nel 2023, mentre il mondo del lavoro celebrava la flessibilità e il “purpose”, nessuno avrebbe scommesso sul ritorno in auge del posto fisso. E invece, due anni dopo, la tendenza si è ribaltata: la sicurezza del lavoro è tornata a essere la priorità assoluta per chi lavora.
Lo racconta il nuovo HR Monitor 2025 di McKinsey & Company, condotto su 4.069 dipendenti in 1.925 aziende tra Italia, Francia, Germania, Polonia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti. I risultati? Spiazzanti: il 39% dei lavoratori mette al primo posto la stabilità occupazionale, davanti alla conciliazione vita-lavoro (34%) e alle relazioni con i colleghi (33%).
«Due anni fa — spiega Federico Marafante, senior partner di McKinsey — ci chiedevamo perché le persone lasciassero. Oggi vogliamo capire perché restano. E la risposta è chiara: cercano sicurezza, in un contesto economico e geopolitico sempre più instabile».
Dalla flessibilità al bisogno di radici
Nel 2023 la top 4 delle motivazioni per restare in azienda era dominata da stipendio, flessibilità, purpose e clima interno. Ma nel 2025 la scala dei valori si è capovolta. La sicurezza del posto di lavoro, praticamente assente due anni fa, è ora in cima. Un segnale forte per le direzioni HR, chiamate a reinterpretare il concetto di employee experience in un mondo dove le certezze sono tornate a contare più delle libertà.
HR sotto pressione
L’indagine di McKinsey mostra anche le crepe nel sistema: solo il 56% delle offerte di lavoro viene effettivamente accettato e il 18% dei nuovi assunti lascia l’azienda già nel periodo di prova. Tradotto: meno della metà delle assunzioni si trasforma in un rapporto stabile oltre i sei mesi.
Eppure, mentre il 73% delle organizzazioni dichiara di pianificare la propria forza lavoro su base operativa, pochissime lo fanno con un orizzonte strategico di lungo termine: negli Stati Uniti, solo il 12% dei leader HR pianifica a più di tre anni.
La formazione? Ancora un miraggio
Altro dato allarmante: il 26% dei dipendenti non ha ricevuto nemmeno un feedback nell’ultimo anno, e solo un terzo dei ruoli critici ha un piano di successione. In media, la formazione reale percepita dai lavoratori è la metà di quella dichiarata dalle aziende. Un terreno fertile per il fenomeno del quiet quitting — quella disconnessione silenziosa che svuota di senso le giornate lavorative pur senza generare dimissioni.
AI sì, ma con umanità
Solo il 19% dei processi HR core in Europa utilizza già l’intelligenza artificiale generativa, mentre il 32% è in fase pilota. «L’arrivo della GenAI — spiega Marafante — è l’equivalente della macchina a vapore. Ma la vera differenza la faranno le persone».
Paradossalmente, la tecnologia sta riportando al centro proprio ciò che sembrava superato: l’ascolto, la fiducia e la stabilità. Automatizzare ferie e permessi non basta: bisogna liberare tempo per capire chi si ha davanti, cosa lo motiva, come farlo crescere.
Il nuovo mantra HR
McKinsey non lascia spazio ai dubbi: retribuzione e orari restano importanti, ma non sono più la chiave della fidelizzazione. Per trattenere i talenti serve un approccio personalizzato, data-driven e umano.
Il posto fisso, insomma, non è tornato per nostalgia: è tornato per necessità.
E forse, dopo anni di slogan sulla libertà, questa nuova sete di sicurezza è il segnale più autentico di un mondo del lavoro che sta finalmente tornando a chiedersi non come fuggire, ma perché restare.