Non capita tutti i giorni che un’email interna di un CEO diventi virale. Eppure è successo ad AT&T, dopo che John Stankey, amministratore delegato di una delle aziende più longeve e simboliche della corporate America, ha inviato ai suoi manager un memo di 2.500 parole in risposta a un sondaggio interno sull’engagement dei dipendenti. Un testo che, pubblicato integralmente da Business Insider, ha fatto il giro del web.
Alla prima lettura, mi ha strappato un sorriso amaro: un altro top manager che bacchetta il personale, accusandolo di lamentarsi troppo. Poi, rileggendolo, mi sono reso conto che non era il solito sfogo da dirigente infastidito. Stankey stava facendo qualcosa di raro: dichiarare apertamente la morte di un’idea che per decenni è stata alla base del rapporto di lavoro — la lealtà reciproca tra azienda e dipendenti.
Scrive testualmente: «Alcuni di voi avranno iniziato qui pensando a un “patto di lavoro” basato sulla lealtà. Noi ci siamo consapevolmente allontanati da questi elementi». In gergo accademico si chiama contratto psicologico: quell’insieme di aspettative non scritte che definiscono ciò che il dipendente si aspetta dall’azienda e viceversa. In passato, in cambio di impegno, competenza e dedizione, le aziende promettevano stabilità, crescita e protezione. Oggi, Stankey ci dice che il patto è finito.
Il suo nuovo “manuale” di rapporti aziendali è spietato nella chiarezza: ai dipendenti è dovuto un ufficio funzionante, strumenti adeguati e un percorso di carriera trasparente; non sono dovuti promozioni per anzianità, smart working flessibile o — appunto — lealtà.
Questa transizione dal modello “familiare” a quello “di mercato” non è nuova: inizia negli anni ’80, con i primi tagli di massa, le pensioni ridotte, i benefit tagliati. Ma raramente un CEO lo ha detto così, nero su bianco. Perché finché l’illusione resiste, l’azienda riesce a spremere di più.
Il problema è che questo non è un dialogo: è un dettato di condizioni. Stankey liquida i malumori come «resistenza al cambiamento» e avverte chi non si allinea che «le vostre aspettative professionali potrebbero non essere in linea con la direzione strategica dell’azienda». Tradotto: la porta è quella.
Eppure, quello che AT&T sembra offrire in cambio è ridicolo: “avrete una scrivania” — dopo aver costretto tutti al rientro in ufficio — non è esattamente un benefit motivante. Non c’è un vero nuovo patto, c’è solo la fine di quello vecchio. L’unico incentivo rimasto è: continuare ad avere un lavoro.
Questa linea dura, oggi di moda tra diversi CEO americani (da Zuckerberg a Lütke), si fonda sull’idea che con l’AI e un mercato del lavoro bianco-colletto in recessione si possa ridurre l’organico e spingere di più chi resta, magari usando la paura come leva. Ma la ricerca dice altro: il lavoro fatto per paura è più veloce, sì, ma meno accurato, meno creativo e meno innovativo.
L’ironia è che proprio in un’epoca in cui l’AI riduce il numero di persone necessarie, il valore di ogni singolo talento aumenta. E chi se ne va, spesso, non è il mediocre, ma il migliore.
AT&T un tempo era una “famiglia”, al punto che intere generazioni lavoravano lì. Oggi, il CEO annuncia la fine di quel modello senza offrire una vera alternativa. Il punto non è tornare alla pensione a vita: il punto è capire quale sarà il nuovo patto. Perché pretendere impegno senza dare impegno in cambio, semplicemente, non funziona.
E forse Stankey dovrebbe rileggere quel sondaggio: 99.000 persone hanno risposto, molte criticando perché ancora sperano che AT&T possa tornare a essere un posto per cui valga la pena dare il meglio. C’è un messaggio lì dentro: non è troppo tardi.