In un’epoca che celebra l’eccezionalità, il talento ha acquisito un valore quasi sacro. Su LinkedIn lo troviamo così spesso che è diventato moneta d’uso comune, eppure in questa inflazione semantica qualcosa si è perso. La parola “talento” rischia di diventare una copertura che nasconde l’impegno, la fatica, la ripetizione quotidiana.
Il giro sul mito
Dietro ogni persona che chiamiamo “talentuosa” ci sono ore, anni, errori, tentativi. Beethoven, Einstein, Pelé: a dispetto dell’apparenza dell’innato, è la costanza, la devozione, la pratica che trasformano la passione in maestria.
Eppure continuiamo a cercare un dono, un tratto genetico, un privilegio riservato a pochi.
CLICCA QUI PER SCOPRIRE IL TUO POTENZIALE TRAMITE IL TEST GRATUITO!
La scienza che smonta il mito
Le ricerche confermano che non è il “genio innato” a decidere, ma le abitudini. Carol Dweck ha introdotto il concetto di growth mindset: credere che si possa migliorare è il primo passo per farlo.
Angela Duckworth ha portato avanti la teoria del grit: persistere più a lungo di altri è ciò che distingue chi “fa successo” da chi resta a inseguire.
Anders Ericsson ha studiato l’apprendimento deliberato: migliaia di ore di pratica intenzionale, non semplicemente ripetizione, fanno la differenza.
Un nuovo modo di pensare
Se il talento è come un’abitudine, allora possiamo tutti partecipare. Non serve uscire con forza dalla comfort zone, ma ampliarne il perimetro con gentilezza e costanza. Non è un atto eroico isolato, ma una paziente scelta quotidiana.
Ecco perché dobbiamo smettere di inseguire il talento come privilegio e iniziare a viverlo come processo.
Conclusione
Forse un giorno ci accorgeremo che non esistono persone straordinarie, ma solo persone che non hanno mollato il loro lavoro interiore. Allora la parola “talento” potrà tornare a significare ciò che è: il frutto della perseveranza, del coraggio di continuare, della dedizione.
E forse parleremo meno di dono e più di coraggio.