Negli ultimi anni la modalità del lavoro da remoto ha ricevuto un’accelerazione repentina. Ma ora, a distanza di tempo, emerge un bilancio più sobrio: secondo lo studio N. 1508 della Banca d’Italia.
Il quadro dello studio
Lo studio si basa sui dati raccolti fra il 2019 e il 2023 nell’ambito dell’indagine Invind, e incrocia informazioni sulle imprese industriali e dei servizi riguardanti l’utilizzo del lavoro da remoto, il fatturato, l’input di lavoro, la composizione della forza lavoro, i costi e gli investimenti.
La conclusione generale è che, in media, l’adozione del lavoro a distanza non ha generato né miglioramenti sostanziali della produttività né peggioramenti. In particolare non si sono registrati cambiamenti significativi né nei ricavi per addetto né nelle ore lavorate in modo tale da alterare la produttività complessiva.
È comunque emersa una forte eterogeneità tra imprese: alcune hanno tratto beneficio, altre hanno invece registrato performance peggiori.
Le imprese che hanno beneficiato di più sono quelle che, prima della pandemia, avevano già una certa familiarità con la modalità remota o erano infrastrutturalmente e culturalmente pronte per gestirla; viceversa, quelle più “resistenti” al cambiamento hanno avuto difficoltà e talvolta sono tornate a schemi tradizionali.
Inoltre, lo studio rileva che l’utilizzo del lavoro remoto, dopo il picco pandemico, si è ridotto ma è rimasto comunque più elevato rispetto al 2019.
Cosa significa per le aziende
Per le imprese, questa evidenza comporta una riflessione non più sull’“automatico guadagno di produttività” legato allo smart working, bensì sulla qualità del processo di implementazione.
Da un lato, sapere che in media non si è verificata una perdita è già un segnale positivo: la transizione non ha creato disastri produttivi sistemici. Come commentato da esperti, «se un cambiamento così radicale non ha travolto le imprese, è già una buona notizia».
Dall’altro lato, la neutralità media nasconde realtà molto diverse: per alcune aziende il lavoro da remoto è stato un’opportunità concreta di miglioramento; per altre una scelta che non ha portato vantaggi — o che ha richiesto costi e sforzi superiori ai benefici.
Questo implica che la decisione aziendale non può più essere “fare smart working” in modo meccanico, bensì “come” farlo, quando, e con quali condizioni. In altre parole, il lavoro da remoto dev’essere integrato in una visione organizzativa, tecnologica e manageriale più ampia.
In concreto, le aziende che vogliono trarne vantaggio devono porre domande come:
- Quali ruoli e quali processi sono adatti al remoto o all’ibrido?
- Quali investimenti in infrastrutture digitali e processi collaborativi sono necessari?
- Come cambiano le modalità di coordinamento, controllo, obiettivi e feedback?
- Come gestire la cultura aziendale, la coesione del team e l’equilibrio tra presenza/assenza fisica?
In assenza di queste riflessioni, il lavoro remoto rischia di rimanere un “adattamento temporaneo” anziché diventare una leva strategica.
Il punto di vista delle risorse umane
Dal lato HR la ricerca della Banca d’Italia impone un ripensamento delle politiche di gestione delle persone. Pur non avendo generato un effetto medio forte sulla produttività, il lavoro da remoto rimane una componente importante nella “offerta” aziendale al candidato e al collaboratore: flessibilità, autonomia, conciliazione vita-lavoro diventano leve di attrazione e fidelizzazione.
In particolare, le HR devono considerare:
- La selezione e la gestione del talento: il remote/ibrido è ormai parte delle aspettative di molti profili, specialmente nelle generazioni più giovani o in contesti urbani.
- Il benessere e la motivazione: avere più autonomia non significa automaticamente maggiore produttività e soddisfazione; va gestita anche la dimensione relazionale, l’isolamento, la differenza di trattamento tra chi è in sede e chi è remoto.
- Le competenze manageriali: la modalità remota richiede stili di leadership diversi, capacità di definire obiettivi chiari, monitorare risultati, favorire collaborazione anche a distanza, mantenere la cultura aziendale. Il report della Banca d’Italia sottolinea che l’eterogeneità tra imprese è connessa anche alla “resistenza” al lavoro da remoto, che spesso si traduce in relazioni organizzative poco pronte.
- La policy di lavoro ibrido/remoto: definire chiaramente le condizioni, i limiti, le modalità di valutazione, i momenti di presenza in ufficio, la dotazione tecnologica, il supporto al collaboratore.
In sostanza, le HR che vogliono utilizzare il lavoro remoto come leva strategica dovranno passare da “consentire lo smart working” a “gestire un modello ibrido di lavoro”, integrato e coerente con la cultura dell’azienda.
Per i lavoratori: opportunità e responsabilità
Dal punto di vista del lavoratore, lo smart working continua a rappresentare un’opportunità - ma non è automaticamente “migliore” per tutti e in tutte le condizioni.
Sul fronte delle opportunità:
- Maggiore flessibilità e autonomia nella gestione dei tempi e del luogo di lavoro.
- Possibilità di bilanciare meglio impegni di cura, spostamenti, qualità della vita.
- In contesti in cui l’azienda è ben organizzata, la modalità remota può generare un miglior equilibrio e un rapporto più responsabile con il lavoro.
Ma ci sono anche elementi di responsabilità e precondizioni:
- Lavorare da remoto richiede autodisciplina, buon uso degli strumenti digitali, capacità di comunicare in modo proattivo, di gestire le interazioni da lontano.
- Rimane vitale il contatto, la visibilità, la collaborazione: se l’azienda non cura questi aspetti, il lavoratore remoto può rischiare di essere “meno visibile” o meno integrato.
- La modalità remota non è adatta a tutti i ruoli, né a tutte le fasi professionali: alcuni percorsi di crescita, mentoring o formazione in azienda richiedono presenza e relazioni “fisiche” più dirette.
- Il fatto che lo studio della Banca d’Italia abbia rilevato effetti neutri significa che la “flessibilità” ottenuta va accompagnata da una modalità organizzativa che la renda produttiva, non data per scontata.
In altri termini: per il lavoratore, l’adozione dello smart working può essere un vantaggio - se l’azienda lo gestisce bene; altrimenti, può rimanere semplicemente un “benefit percepito”, senza impatti evidenti.
Quale bilancio finale?
Se dovessimo tirare una linea: lo smart working in Italia ha prodotto un impatto neutro sulla produttività in media, ma con segnali differenziati per i contesti più maturi. È quindi una buona notizia moderata, ma non la “rivoluzione” che molti avevano anticipato.
La neutralità non significa “fallimento”, al contrario: aver mantenuto produttività e performance nonostante una transizione repentina è un risultato che merita riconoscimento.
Ma è anche un monito: lo smart working non è un automatismo che porta benefici da sé. Serve contesto, cultura, tecnologia, organizzazione. Le imprese che lo useranno in modo strategico - e non solo come risposta emergenziale - avranno maggiori possibilità di trasformarlo in leva di competitività.
Insomma: positivo nella sua tenuta, condizionato nella sua efficacia. Per aziende, HR e lavoratori è il momento di passare da “abbiamo fatto smart working” a “stiamo facendo smart working bene”.