Con la Legge 76/2025, l’Italia si allinea alla crescente attenzione europea verso modelli di impresa più partecipativi. L’obiettivo è quello di coinvolgere maggiormente i lavoratori nella vita dell’azienda, non solo in termini operativi ma anche decisionali e, in alcuni casi, economici.
Una spinta verso una cultura del lavoro più inclusiva, meno basata sul conflitto, e più sulla condivisione di obiettivi. Ma è giusto anche chiarire i limiti di questo approccio, e non confondere la partecipazione con l’assunzione del rischio imprenditoriale.
Cosa prevede la legge
La normativa, nata su iniziativa popolare e promossa dalla CISL, ha preso forma definitiva con un impianto volontario: nessun obbligo per le aziende private, ma incentivi e cornici da negoziare attraverso la contrattazione collettiva. Le forme previste sono quattro:
- Partecipazione gestionale – La possibilità di includere rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione.
- Partecipazione economico-finanziaria – Incentivi fiscali per chi distribuisce utili o converte premi in azioni.
- Partecipazione organizzativa – Coinvolgimento nella definizione dei processi produttivi.
- Partecipazione consultiva – Informazione e confronto su decisioni aziendali rilevanti.
Tutti strumenti utili per rafforzare la coesione, migliorare la produttività e fidelizzare i talenti.
Il cuore resta il rischio imprenditoriale
Ma c’è una domanda che, nel dibattito pubblico, spesso viene ignorata: quanto sono disposti davvero i lavoratori a condividere il rischio imprenditoriale?
Perché partecipare agli utili è una cosa. Investire tempo, denaro, reputazione e assumersi la responsabilità di una scelta imprenditoriale è un’altra. La legge promuove la partecipazione, ma l’impresa nasce, cresce (e a volte cade) sulle spalle di chi si prende il rischio per primo. E questa è una dimensione non condivisibile per decreto o contratto collettivo.
Anzi, in molte realtà imprenditoriali, soprattutto piccole e medie, il senso di solitudine del fondatore non diminuisce con l'aumentare dei collaboratori. L'imprenditore investe quando altri attendono lo stipendio, rischia quando altri preferiscono la stabilità.
Una cultura del lavoro più matura
Detto questo, la nuova legge rappresenta comunque un’occasione per far crescere una cultura del lavoro più responsabile e dialogante. Se ben applicata, può incentivare i collaboratori a sentirsi parte del percorso, a contribuire in modo più attivo, a orientarsi verso obiettivi comuni. Anche senza diventare tutti imprenditori.
L’Europa, in parte, insegna: modelli come quelli tedeschi e francesi mostrano che una partecipazione strutturata può convivere con un’impresa sana, e anzi rafforzarla. A patto di non perdere di vista chi guida la nave.
In conclusione, partecipare all’impresa non vuol dire fondarla. Ma dare voce, riconoscimento e condivisione a chi la fa vivere ogni giorno può essere un passo importante. L’equilibrio non è facile, ma vale la pena provarci.