Nelle aziende italiane si parla sempre più di performance, obiettivi e competenze. Molto meno del peso emotivo che regge tutto questo. Eppure proprio lì, nelle dinamiche quotidiane tra manager e collaboratori, si gioca una parte fondamentale della salute organizzativa.
La ricerca LHH “Il costo emotivo della Leadership”, condotta su oltre 4.300 lavoratori, mostra un dato che non può più essere ignorato: lo stress è ormai strutturale. Più dell’ottanta per cento degli intervistati dichiara di viverlo con costanza e, per una parte significativa, non si tratta di un effetto dei picchi stagionali ma di una condizione ricorrente. Le ragioni non riguardano le scadenze, come spesso si pensa, ma aspetti più profondi della vita aziendale. Carichi di lavoro elevati, mancanza di risorse e pressioni dall’alto sono le cause più citate, insieme ai conflitti relazionali. Segnali che parlano di organizzazioni che faticano a sostenere il proprio ritmo interno.
Il burnout è l’altro lato di questa storia. La ricerca mostra che più di un lavoratore su due lo ha sperimentato almeno una volta e quasi uno su cinque ne soffre attualmente. Le manifestazioni non sono soltanto psicologiche, ma fisiche e cognitive: stanchezza persistente, insonnia, difficoltà di concentrazione, irritabilità e calo motivazionale. È la fotografia di un esaurimento che non nasce solo dal “fare troppo”, ma dal non riuscire a recuperare energie, a sentirsi supportati, a riconoscersi nel contesto in cui si lavora.
Il dato forse più emblematico riguarda il silenzio. Il quarantuno per cento dei lavoratori non parla a nessuno quando vive un disagio emotivo legato al lavoro. Non lo fa con il capo, non lo fa con l’HR, non lo fa con i vertici. È una barriera che pesa tanto quanto le ore di straordinario. E quello stesso silenzio torna nel rapporto con i responsabili. Molti manager si vedono come figure di supporto, ma quasi un terzo dei collaboratori percepisce la leadership come fonte di pressione. E quasi la metà considera il proprio capo molto stressato. Quando a mancare è lo spazio psicologico per parlare, la relazione si irrigidisce e il benessere si indebolisce in profondità.
Un aspetto interessante è che i lavoratori attribuiscono la responsabilità del benessere psicologico soprattutto all’azienda, non all’individuo. Vertici, responsabili diretti e HR sono indicati come gli attori che dovrebbero farsi carico di questo tema. E le soluzioni richieste non sono astratte: più empatia, più ascolto, comunicazione chiara, riconoscimento del lavoro, maggiore autonomia e una distribuzione più equa dei carichi. Non benefit, ma comportamenti manageriali. Non iniziative spot, ma cultura.
La ricerca LHH suggerisce una verità semplice. Il benessere non è un concetto teorico, è un effetto concreto delle relazioni che viviamo ogni giorno. Dove c’è ascolto, fiducia e chiarezza, i team lavorano meglio e le persone restano. Dove il dialogo si spezza, la performance si indebolisce e il rischio di perdita di talenti aumenta.
In un mercato dove le competenze sono preziose e l’engagement è un indicatore sempre più sensibile, il costo emotivo della leadership diventa un tema strategico. Non riguarda solo chi guida, ma l’intera struttura che sostiene il lavoro. Ed è proprio da qui che passa la possibilità di costruire organizzazioni più sane, più efficaci e, soprattutto, più umane.
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