Alessandro Megaro, MMEA Head of Learning and Employee Relations alla divisione italiana della compagnia assicurativa francese, ci fa conoscere il salto culturale fatto da questa azienda in epoca di pandemia.
Alessandro è responsabile di relazioni industriali, formazione e amministrazione del personale in Euler Hermes Italia e il nostro magazine lo ha contattato per farsi raccontare di questo loro “manifesto” interno sullo smart working.
Cos’è questo “manifesto” e cosa puoi dirci in merito al diritto alla disconnessione, di cui si parla spesso dopo le esperienze traumatiche del remote working dello scorso anno?
Il Manifesto è nato come un momento di riflessione interna e mette in discussione alcuni aspetti tipici dell’impalcatura classica del lavoro. Stabilisce, infatti, alcune regole di buon senso che regolano le interazioni tra i soggetti nell’ambito del lavoro, prevedendo diritti e doveri per entrambe le parti, azienda e lavoratori.
Il Manifesto prevede, tra i vari diritti, quello di accesso alla strategia, alla formazione tecnologica, alla flessibilità ed alla integrazione familiare e tratta anche il diritto alla disconnessione: abbiamo, perciò, deciso di regolare tramite uno strumento soft, cioè una policy, anche questo ultimo aspetto cruciale dopo aver ascoltato le richieste delle nostre persone.
Per diritto alla disconnessione si intende il fatto che un dipendente, in linea di principio, non è tenuto a fornire informazioni fuori dall’orario o nel weekend e che le riunioni non dovrebbero essere convocate dopo una certa ora: si tratta in pratica di promuovere un concetto corretto di disponibilità.
Allo stesso tempo abbiamo voluto, però, sottolineare il fatto che in caso di urgenze il dipendente deve essere pronto a “restituire” la flessibilità che l’organizzazione gli riconosce.
Non abbiamo deciso di porre in essere dei meccanismi di controllo della disconnessione come invece avviene altrove: la nostra sede in Francia, cui si applica, ovviamente, la legislazione francese in tema di disconnessione segue delle regole diverse, più strutturate poiché sono proprio le norme a richiederlo. Resta fermo quindi il profilo strettamente culturale del nostro Manifesto.
La logica è stata, comunque, quella di superare alcuni paletti organizzativi consolidatisi negli anni: ad esempio ora i permessi non sono più necessari durante lo smart working o l’organizzazione dell’orario di lavoro da remoto, per esigenze familiari, è rivedibile in via eccezionale con il proprio responsabile autonomamente senza passare per HR di settimana in settimana.
La pandemia immagino sia stata l’evento scatenante di questa riflessione approfondita.
La pandemia ha facilitato il tutto. Dal momento che ci siamo trovati a lavorare in modalità da remoto con un limite più sfumato tra tempi di lavoro e tempi di vita privata, il tema del diritto alla disconnessione è emerso in maniera significativa, qui come altrove.
Salvaguardando, quindi, l’urgenza e non potendo lavorarci sotto un aspetto tecnologico – cioè di disconnessione automatica dei sistemi che sarebbe da noi impraticabile - abbiamo affrontato il tema sotto un profilo squisitamente culturale. Cosa che, a nostro avviso, è stata la scelta migliore.
Indirettamente mi confermi che c’è un aspetto culturale di “resistenza alla disconnessione”. Nel Nord Europa è proprio il tuo manager che alle 17 stacca il cellulare per non farsi più disturbare!
Questo è vero ma dipende dalle aziende, dai manager e, ovviamente, da sistemi organizzativi – quelli dei paesi nordici – in generale diversi dai nostri: c’è una cultura del lavoro totalmente diversa. E non solo.
Da noi in Italia la strada migliore è una virata culturale sulla “pratica” lavorativa che, tra l’altro, riguarda proprio il ruolo di HR: siamo chiamati a spiegare i comportamenti che rendono l’ambiente di lavoro sano e produttivo. E nella nostra esperienza organizzativa, come Euler Hermes Italia, abbiamo un management molto maturo.
In quale contesto aziendale nasce il Manifesto? In Euler Hermes c’era già sensibilità su queste questioni? Perché l’idea che mi sono fatto è che dove ci avevano già lavorato in passato hanno bruciato le tappe dopo la pandemia.
Qui abbiamo introdotto il lavoro agile tra il 2015 ed il 2016 e siamo stati tra i primi nel comparto assicurativo. Credo che lo smart working sia solo un passaggio, non un punto d’arrivo, che gli HR dotati di elasticità mentale devono sfruttare: lo smart working, infatti, favorisce e fluidifica il percorso verso una “smart company”.
Tra l’altro, in Euler Hermes Italia, abbiamo anche abolito alcune timbrature da maggio, così come il relativo controllo manageriale sulle presenze. Tale decisione faceva parte del Contratto Integrativo siglato all’inizio del 2020 la cui applicazione è stata poi ritardata dalla pandemia.
Questa è una grandissima innovazione organizzativa e culturale che unita allo smart working ed al relativo manifesto, getta le radici per qualcosa di più, per una organizzazione flessibile nei tempi e negli spazi.
Per chiudere Alessandro ti chiedo se a tuo avviso questo processo è irreversibile, cioè le aziende dovranno tenere sempre di più in considerazione le esigenze di benessere dei loro collaboratori?
Dipende dalla cultura aziendale. Nel settore assicurativo o bancario, nei servizi in generale, c’è una cultura esigente e la natura dell’attività facilita il ricorso a forme di smart working. In generale per le società “moderne” tornare indietro diventa quasi impossibile.
Quindi, in generale, nelle grandi aziende non credo si possa tornare agevolmente alle condizioni pre-pandemia. Ne farebbe le spese l’engagement aziendale. Parafrasando Alexis de Tocqueville in merito allo sviluppo della democrazia americana che aveva studiato approfonditamente nell’Ottocento, possiamo dire che il progresso, anche in questo caso, è sempre difficile da arrestare.