Enrico Martines è Direttore Sviluppo e Innovazione Sociale in Hewlett Packard Enterprise. Come executive HR è membro del board che guida HPE con le responsabilità estese di engagement, comunicazione e politiche ambientali. Da oltre 20 anni la sua carriera si è focalizzata nel settore delle Risorse Umane, gestendo progetti complessi di cambiamento e trasformazione aziendale, sostenendo le iniziative strategiche di business e promuovendo l’engagement. Enrico, appassionato di innovazione tecnologica ed esperto nelle scienze sociali, è stato speaker allo Smart Working Day di Roma nel 2021. Il nostro magazine ha deciso di intervistarlo per approfondire alcuni contenuti.
Uno dei temi di dibattito attuale nel mondo HR è il “new way of working”. Qual è l’esperienza di Hewlett Packard Enterprise in termini di organizzazione e smart working?
Vorrei partire dicendo che qui da noi non lo chiamiamo smart working. Il periodo pandemico e post-pandemico è stato caratterizzato dal remote working, ma Hewlett Packard Enterprise è storicamente una realtà che ha il lavoro da remoto come parte del proprio modo di operare. Già negli anni ’70 nei nostri uffici non esistevano cartellini da timbrare e quant’altro.
Prima dell’emergenza sanitaria era la normalità che circa il 60% di noi lavorasse abitualmente fuori ufficio, ovvero a casa, in trasferta o presso un cliente. Siamo naturalmente dotati degli strumenti tecnologici opportuni, ma tutto questo è basato sui principi culturali fondanti di questa iconica company, nata nel 1939: fiducia reciproca e lavoro per obbiettivi.
Il “future of work” è quindi la persona al centro che crea valore nell’organizzazione?
Questo tipo di cultura fa sparire il micro-management e il controllo - le persone sanno quello che devono fare e si organizzano nei modi che ritengono più opportuni – e l’abbiamo formalizzata nel progetto che si chiama edge to office. Il nostro CEO a livello mondiale nel 2020 disse che il DNA dell’azienda è l’innovazione e quindi ipotizzò che non più della metà dei dipendenti sarebbe tornata in ufficio dopo la pandemia.
Oggi in realtà solo il 5% è stato caratterizzato come office, tutti gli altri – io compreso – siamo edge, cioè prevalentemente da remoto. Il punto di questo progetto è che sono le persone a decidere, non c’è un workflow da far approvare, così come non ci sono rigidità programmate tipo “due volte al mese in smart working”, ecc… Qui si armonizza la vita privata con i compiti che devono essere svolti.
Cosa significa parlare di innovazione sociale in azienda?
Significa praticare tutta quella serie di esperienze, progetti e attività che vanno nella direzione di una sostenibilità interna ed esterna all’organizzazione. Facciamo la nostra parte in ottica Sustanaible Development Goals e Agenda 2030 dell’ONU. Il mio compito come Direttore dello sviluppo e innovazione sociale è che le persone siano orgogliose di un’azienda che restituisce benessere, sia con attività interne di gestione del talento e formazione così come le attività esterne di volontariato.
E questo come nasce in Hewlett Packard Enterprise?
Devo fare una premessa storica. La società Hewlett-Packard (dal 2015 Hewlett Packard Enterprise dopo la scissione, Ndr) fu fondata da Bill Hewlett e David Packard - due ingegneri elettrici laureati a Stanford - a Palo Alto. Quella zona è diventata famosa come Silicon Valley perché tanti “talenti nell’industria del silicio” sono stati dipendenti di Hewlett-Packard e poi hanno aperto le loro imprese.
Da lì sono passati geni come Steve Wozniak, favoriti dall’idea dell’azienda di non fare solo business, bensì restituire qualcosa al territorio, dando ai dipendenti delle ore retribuite da dedicare a beneficio degli altri. È in questo modo che Wozniak creò il primo prototipo di PC Apple I. Hewlett-Packard all’epoca produceva apparecchiature elettromedicali e non fu interessata, ma lo supportò nel creare la sua impresa per provare a commercializzarlo. Così fu la genesi di Apple…
Può raccontarci qualcosa in merito alla sensibilizzazione dei dipendenti a dedicare un po’ del loro tempo verso azioni solidali?
Sull’onda lunga di questa tradizione che ho raccontato, tutti noi abbiamo 60 ore all’anno di volontariato da svolgere in orario di lavoro. Quindi, a giornata o anche per un’intera settimana, i nostri dipendenti sono sostenuti dall’azienda per fare due tipi di attività: quelle dove “ci metti le mani”, ad esempio andare alla mensa della Caritas a servire i pasti, oppure quelle di carattere pro-bono. Ad esempio i colleghi dell’ufficio legale mettono le loro competenze a servizio di Save The Children, o gli ingegneri vanno nelle scuole ad insegnare linguaggio computazionale…
Inoltre, per ogni ora di volontariato la nostra Fondazione ci mette da 10 a 20 dollari per finanziare progetti sociali. In conclusione, il “benessere” non è solo quello che riceviamo dall’occupazione, ma fare in modo che il territorio intorno a una nostra sede riceva benessere. I nostri progetti sono vari, ma riceviamo sempre un arricchimento dal contatto con gli altri. Il clima in azienda è molto sereno e ci sentiamo molto una comunità, fare del bene è motivante e crea engagement.